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LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. VIII

Creato il 14 gennaio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Cap. VIII

LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. VIII
Dopo che ebbe bevuto un paio di bicchieri di acqua minerale in un baretto in compagnia di quelli che sarebbero diventati i suoi nuovi amici, Lino tirò un sospiro di sollievo. Non erano dei musulmani, erano dei più innocui comunisti spiantati che un po’ come hippie anacronistici cianciavano di falansteri, di amore e pace, di fiori nei cannoni oltreché della classe proletaria. Compagni migliori, anche volendo, Lino non se li sarebbe potuti fare. Gli fu subito chiaro che quei due donchisciotte, in un modo o nell’altro, sarebbero entrati a far parte della sua vita nella capitale sabauda.
Quando lo raccolsero da terra tremante come un passerotto caduto dal nido, Lino temette d’aver di fronte chi gli avrebbe spezzato la schiena una volta per tutte. Ma quelli invece si erano presentati ridendo di lui, che non la smetteva di tremare. Gli avevano chiesto che gli fosse accaduto e Lino gliel’aveva detto, ed allora i due gorilla avevano subito preso a sbellicarsi dalle risa non senza sparare battute di cui a Lino sfuggì del tutto il senso. In ogni modo lo rassicurarono dicendogli che era finito nei pressi della moschea, o meglio vicino a una delle masjid torinesi.
Lino fu introdotto in un baretto su Corso Giulio Cesare, dove stazionavo tipacci mezzo avvinazzati ma innocui. Lì buttò giù l’acqua che gli ridiede un po’ di colorito. Il pelato con la barba, un certo Umberto se non aveva capito male, gli stava dicendo in un quasi sussurro che non conviene circolare dalle parti della Moschea della Pace con una faccia come la sua. Quando Lino gli aveva chiesto che cosa intendesse, Umberto gli aveva detto chiaro e tondo che aveva la faccia di un poco di buono. Ed ancora Lino era stato costretto a farsi spiegare: “Intendo dire che la paura te la si legge in faccia e non va bene. Umile sì, pisciasotto no.”

Una volta fuori dal baretto, Lino prese a guardarsi intorno con aria circospetta.
“Se fai roteare gli occhi a quel modo, sicuro che ti becchi una coltellata”, sentenziò Umberto scoppiando a ridere subito imitato da Giampaolo, un tipo sì tanto segaligno da passare per tisico. Palo, volto scavato con una perenne ombra di barba, ghignava alla maniera dei tisici sputacchiando. Umberto sosteneva che fosse un jinn.
Lino sentendo parlare di coltellate si fece più cereo d’un cadavere ambulante.
“E mo’ che ti prende?”, s’informò Palo che aveva intuito bene il motivo del pallore di Lino e che però voleva sentirgli dichiarare che se la stava facendo un’altra volta sotto dalla paura. Lino gli restituì un’occhiataccia, al che Palo gli bussò la schiena con una bella manata: “Hai ancora il cavallo bagnato, non è il caso che le scagazzi pure le mutande…”
Umberto, senza ritegno, rideva reggendosi la pancia: in vita sua non gli era mai capitato d’incontrare un tipo così, né carne né pesce.
Vendendo che i due suoi nuovi amici ridevano di lui si accigliò, non più di tanto in ogni caso: in quel momento la codardia che gli scorreva nelle vene era più forte dell’orgoglio e d’attorno c’erano solamente arabi e donne uguali a negri fantasmi intabarrate com’erano nei loro diavolo di burqa. Se uno riusciva a scorgergli gli occhi era un miracolo! Camminavano tutte a gruppi di tre o quattro. Erano davvero poche quelle che non avevano accanto una compagna. Facevano una impressione della madonna. Lino non aveva mai provato paura, non per delle donne perlomeno; ma che cazzo ne sapeva lui se quelle sotto quel loro lenzuolo nero nascondevano qualche chilo di esplosivo? Se erano donne, perché modo di appurarlo non c’era, gli occhi da sotto il burqa lo incenerivano. Sentiva sguardi alieni penetrargli l’anima. Temette d’aver un attacco di panico quando si rese conto che persino il suo pipino si era ridotto a un viscido mollusco dentro alle mutande..
Non era proprio il caso di farsi nemici Umberto e Giampaolo invitandoli a smettere di sbeffeggiarlo. Se c’era una cosa che gli premeva era di portar via le chiappe. Abbandonato in quella casbah, da solo era certo che qualche arabo gli avrebbe regalato un sorriso sotto il collo da orecchio a orecchio. Non osava poi neanche pensare all’eventualità che uno di quei figli di Maometto potesse abusare di lui. Aveva sentito in giro strane storie, anche giù al suo paese e nessuna era un minimo rassicurante: se dicevano il vero, e lui ne era convinto, quelli non si facevano scrupoli a inchiappettarsi un povero cristianuccio. Gli era stato assicurato che certa gente non faceva caso ai particolari, per cui il suo buco valeva quanto quello d’una donna se non di più. Un brivido freddo gli corse lungo la schiena.

Umberto gli batté la spalla con un pugno: “Siamo al mercato. Se hai qualche cosa in tasca meglio che fai attenzione”.
Palo si leccò le labbra: “Attraversato il mercato siamo a casa nostra.”
Lino, in cuor suo, prese a pregare nonostante nutrisse una fede a dir poco spicciola per Cristo ed uguale a quella per Maometto il Profeta.

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