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LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XVII

Creato il 06 marzo 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Cap. XVII

LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XVII
“Come andiamo stamattina?”
Lino si stirò nel letto come meglio gli riuscì accennando in risposta solamente la bozza d’un sorriso. Ancora non gli era ben chiaro che cosa gli era accaduto. Capiva però che c’era mancato un pelo perché ci lasciasse le penne.
“Se continua a migliorare a breve la dimettiamo. E’ contento?”
Lino fece finta di non aver sentito. Dalla Chiesa andava per le spicciole, non aveva intenzione di trattenere il paziente; era sua intenzione sbarazzarsene nel più breve tempo possibile. Che tirasse pure le cuoia in strada. Gli aveva già creato troppi grattacapi, l’ospedalizzazione dei barboni non gli era mai andata a genio.
Dalla Chiesa accarezzò la fronte del malato tentando d’apparire paterno. La mano gelida del primario si impresse sulla pelle di Lino, che reagì con una smorfia di dolore manco fosse stato marchiato da Dio al pari di Caino.
“Si faccia coraggio, il peggio è passato”.
Gli stava dicendo che presto avrebbe ricevuto il benservito.
I polmoni gli bruciavano ancora. Parlare non gli veniva facile: la tosse gli soffocava le parole in gola.
“Non si sforzi di parlare. Tempo due giorni e la rimettiamo a nuovo, parola mia”, disse tutto d’un fiato Dalla Chiesa squadernando il suo sorriso più accattivante. Poi girò sui tacchi e lasciò la stanza del paziente.
Lino non ci aveva messo niente a capire l’antifona: l’avrebbero buttato fuori a calci in culo, non era più desiderato. Ancora non sapeva com’era potuto capitargli tutto quello che gli era capitato, ma la sua vita continuava a rimanere appesa a un filo. Nei momenti di più forte solitudine, sepolto nel suo anonimo letto d’ospedale, si permetteva di pensare che forse sarebbe stato meglio per lui morire. Pensare così gli faceva un male boia, gli scatenava un panico che eruttava fuori in violenti accessi di tosse. Ben presto si rese conto che l’unica soluzione era quella di non pensare, di essere al di là del bene e del male. Avrebbe voluto accanto a sé qualcuno, anche solo una voce. Ed invece non c’era mai nessuno. Puntuale tutti i giorni veniva a fargli visita il primario. Non si fidava di quel vecchio incartapecorito. C’era in quell’uomo qualcosa che lo disturbava. Non ce l’aveva affatto la faccia d’un vecchio samaritano, sembrava invece un crudele jinn. Se almeno avesse avuto con sé il sermone avrebbe potuto infilarlo sotto il cuscino. Senza il libro si sentiva come Linus privato della sua coperta.

I giorni fecero presto a passare. Dalla Chiesa lo imbottì di antibiotici, impipandosene di brutto se il paziente dava di stomaco, né gli interessavano le eruzioni cutanee di cui si lamentava ogni santo giorno di più. Lui si limitava a rassicurare Lino, con evidente falsità, che era il prezzo da pagare per la guarigione. E Lino crollava il capo in maniera quasi impercettibile tacendo: non nutriva alcuna fiducia nel primario.

Dalla Chiesa, se solo non avesse rischiato d’avere qualche Pm permaloso alle costole, non ci avrebbe pensato sù due volte a far fuori quel dannato barbone che Gabriele gli aveva portato nell’ospedale. Un tempo sarebbe stato molto più facile far sparire un ospite indesiderato come Lino. Dalla Chiesa sospirò rassegnato. Quel dannato voleva indietro la sua copia del sermone. Gliel’aveva chiesto con un filo di voce. Lo aveva quasi pregato di trovarglielo, nonostante fosse evidente che covava in seno una paura del diavolo. Il vecchio primario gongolava: lo faceva andare in visibilio l’idea d’incutere terrore nel prossimo. Il sermone lo aveva trovato senza difficoltà nello studio di Gabriele. Adesso lo portava in giro ben insaccato nella tasca del suo camice d’un bianco immacolato.

(c) Coperto da copyright. Severamente vietata la riproduzione parziale o totale della presente Opera, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 2 di 9.

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