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LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XXI

Creato il 19 aprile 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Cap. XXI

LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XXI
Umberto e Giampaolo avevano oramai dato per fottuto il loro compagno Lino. Avevano fatto il minimo che gli era stato concesso dalla società per tirarlo dalla loro parte, di più, anche volendolo, non avrebbero potuto. Misero una pietra sù Lino, sulle sue idee da fasciocomunista e morta lì. Non era il primo che entrava nelle loro ridicole vite e che spariva di punto in bianco risucchiato da chissà chi o cosa.

Porta Palazzo era la solita casbah sotto il cielo di Torino. C’era ben poco da fare gli schizzinosi, e in ogni caso i due compagni ci si trovavano a loro agio. Non speravano né desideravano migliorare la loro condizione sociale; a loro bastava che si tirasse a campare senza dover finire male con un coltello nella panza o morire all’addiaccio in un vicolo buio sotto quattro cartoni malmessi.
Amavano vivere alla giornata senza troppe preoccupazioni, e recuperare un pezzo di pane che non fosse troppo duro, un po’ di companatico e del vino, scambiare quattro chiacchiere e ficcare il naso un po’ dappertutto per tenersi informati e scacciare la noia. Umberto era il più ficcanaso, non c’era angolo che sfuggisse alla sua perquisizione olfattiva visiva e tattile. Si cacciava in ogni buco del diavolo, non di rado rischiando anche, ma forse non gliene fregava granché ed allora la fortuna arrideva allo spirito temerario che era. Al limite i cristiani si sforzavano di sputargli addosso se proprio Umberto gli rompeva di brutto le palle, gli islamici invece lo tiravano a lucido con uno sguardo eloquente e morta lì. Solo con gli jugoslavi non riusciva a farsi passare per simpatico: una volta aveva rischiato di prendersi una gragnola di pugni e forse anche una coltellata o un proiettile. In ogni caso gli aveva detto bene, giusto un calcione nel sedere perché un vecio si era portato avanti nella mischia e aveva comandato ai suoi di “piantarla”. Non fosse intervenuto, i ragazzacci se lo sarebbero mangiato in un sol boccone.

I due, come lucertole al sole, seduti su cassette di frutta in mezzo al piazzale del mercato, con una bottiglia di Barbera, chiacchieravano del più e del meno saltando di palo in frasca, obbedendo soltanto alla necessità di aprire bocca; e non di rado di sfiatare dabbasso, senza che nessuno gli sventolasse in faccia il suo catechismo d’accatto. Si erano trovati un posticino dove stare in pace, per riposare le chiappe e mandare affanculo il mondo intero.
“Fa caldo. Non è la stagione giusta”, osservò Umberto.
“Non lo è mai, non per noi. Ma finché c’è il vino…”
“Quanto hai tirato sù?”
“Pochi spicci, spilorci di merda.”
“A me non è andata meglio. Non serve stendere la mano in un mercato del cazzo come questo. Tutti miserabili, dal primo all’ultimo.”
“Qui i signori non ci vengono a fare la spesa.”
“Provano schifo…”
“E paura…”
Umberto butto giù un generoso sorso di Barbera e subito ruttò, così tanto forte che avrebbe messo in fuga un orco!
“Che si fa stasera? Si va alla casa?”
“Non tengo voglia. Il partito non è più lo stesso.”
“Non ti garba più…?”, balbettò Giampaolo più spaventato che sorpreso.
“E’ solo che non è la serata giusta. Tutto qui.”
Giampaolo tirò un mezzo sospiro di sollievo. Ma in cuor suo sapeva che Umberto stava meditando una qualche presa di posizione, forse radicale.

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