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LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XXII

Creato il 03 maggio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Cap. XXII

LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XXII
Gli pareva assurdo che sentisse il bisogno di parlare con un prete, per di più adesso che si trovava in ospedale. Ma come gli aveva assicurato Dalla Chiesa sarebbe stato dimesso nel giro di uno o due giorni. Lino scoprì di non essere felice di portar via le chiappe dall’ospedale: fuori sarebbe tornato a vivere una vita senza futuro, senza amici né nemici. Sarebbe stato solo, un randagio che tutti avrebbero scansato. Non nutriva più illusioni sù Torino. I portici di via Roma e via Po non accoglievano quelli come lui e quando sì era solo perché i bennati potessero deriderli con una elemosina da niente o un paio di calci in culo.
La Gran Madre di Dio guardava sù via Po, correva lungo il ponte sul fiume e oltre la piazza, ma di miracoli manco a parlarne. Era una chiesa prorompente al pari di tante altre, ed era inutile che qualcuno impetrasse misericordia. Gli era già capitato di trovarsi lungo via Po dopo le due di notte e non era affatto un bello spettacolo: i barboni rannicchiati nei loro cartoni dormivano o fingevano, gli spacciatori invece smerciavano la roba a giovani fascisti e anarchici purché avessero la grana in tasca. Marocchini appena adolescenti giravano con scorte di droga nei giubbotti e nelle mutande. Erano loro a dar via la regina bianca in bustine poco più grandi d’un francobollo. Li aveva notati e loro una volta l’avevano anche avvicinato. Aveva preso su di sé anche il disprezzo degli spacciatori, che nel giro di poco avevano capito d’aver a che fare con uno spiantato morto di fame.

Con passo timido si avvicinò a quello che pareva un confessionale. Di primo acchito al penitente suggeriva una non poco aria sinistra. Era pronto a far marcia indietro, ma alla fine si costrinse a inginocchiarsi. Non c’era anima viva in quella bara di legno che avrebbe dovuto amministrargli il sacramento della penitenza. Appiccicò l’occhio alla grata di ferro: nemmeno l’ombra d’un fantasma. In lontananza però udì il suono secco di passi portati con decisione marziale. Si volse e vide un omarino calvo con il colletto bianco. Fosse stato più basso di un altro paio di centimetri lo si sarebbe potuto scambiare per un nano. Era il prete. Negli occhi porcini, sulla fronte rugosa, sulle guance grassocce e cascanti, sulla labbra sottili come quelle d’un serpente si poteva leggere di tutto ma non un solo accenno di genuina misericordia. Era ormai troppo tardi per darsela a gambe. Lino si sentì come tradito: perché mai avrebbe dovuto raccontare i suoi sentimenti più profondi a un simile obbrobrio della natura? Si pentì amaramente d’aver maturato la decisione di confessarsi. Se almeno non lo avesse visto! Ed invece lo aveva visto fin troppo bene, un mezzo uomo che lo avrebbe giudicato in virtù del colletto bianco che portava.

Quando il prete lo invitò con una vocetta mielosa quanto falsa a confessarsi Lino sentì un nodo soffocargli la gola. C’era un’unica soluzione, gli avrebbe confessato il falso. Non si fidava di quel prete nano. Non avrebbe mai capito il suo amore per Aidha, di questo ne era certo. Negli occhietti porcini dell’uomo di chiesa c’era l’odio e null’altro.

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