La lebbra – di Iannozzi Giuseppe
Cap. XXIV
Torino coi suoi portici lustri e le vetrine montate a festa, nonostante i tanti cartelli di saldi stracciati, gli apparve, per la prima volta, come una città non troppo aliena e pericolosa. A ogni caffè piemontesi puzzoni con la puzza sotto il naso, e soprattutto lungo le strade una miriade di meridionali, marocchini, neri, slavi, senzatetto e questuanti: una babele di lingue, di confusioni, di gerghi riciclati e passati di bocca in bocca. Tutto questo non era un problema. Non più comunque, anche se faticava ad ammetterlo. Nessuno veniva a importunarlo: forse un paio di volte era stato fermato da alcuni venditori ambulanti, di quelli che ti chiedono se hai dei pregiudizi nei confronti degli ex tossicodipendenti per poi cercare di affibbiarti una biro o un acquerello malfatto, però morta lì: gl’aveva fatto intendere che non aveva tempo per certe cose e si era portato via dal loro raggio.
Passeggiando, senza una meta, sotto i portici di via Roma incontrò anche uomini e donne di chiara fede islamica, che non gli avevano gettato addosso nemmeno un’occhiata; e d’altro canto, perché mai avrebbero dovuto? Lui invece li aveva osservati, ancora incredulo, ma senza quella paura xenofoba che fino a poco tempo fa aveva nutrito in seno. Passando davanti a un cestino dei rifiuti fu quasi tentato di buttar via il sermone. La mano gli scivolò sulla tasca posteriore dei pantaloni e, forse, lo avrebbe cestinato, non fosse stato che fu distratto da un vociare concitato: due ragazzacci se le stavano suonando di santa ragione, con tutta probabilità per futili motivi, come spesso accade.
Lino uscì da sotto i portici per ritrovarsi sotto il sole abbagliante della piazza. I due avvinghiati l’uno all’altro, per terra come serpi, avevano un nutrito gruppo di spettatori; e però non uno che intervenisse. Lino si portò avanti e, sorpreso lui stesso per primo, divise i due tirando per bene gli orecchi ai due quindicenni brufolosi con troppo testosterone in corpo. Non li rimproverò né disse altro. I due cercavano indarno di liberarsi per riprendere a spaccarsi il naso, ma Lino li teneva ben fermi. Gettò un’occhiata prima a uno poi all’altro. Attese che si calmassero un poco, poi li lasciò liberi assicurandosi che i due prendessero strade diverse.
Non aveva ancora deciso dove avrebbe trovato riparo. Di tornare nel vecchio tugurio non ne aveva granché voglia, tanto più che non credeva proprio che fosse rimasto libero; di sicuro era già stato occupato da qualcun altro e se solo lui si fosse presentato sulla porta avrebbe ricevuto il benservito. Non era il caso di rischiare. Pensò anche di mettersi in contatto coi suoi vecchi amici, più spedalati di lui ma forse più accorti negli affari di città; e però nemmeno questa pensata gli garbava. Di sicuro avrebbero fatto domande, avrebbero voluto sapere morte e miracoli, avrebbero scavato nella sua intimità e, poco ma sicuro, avrebbero infine sentenziato. No, era da escludere, almeno per il momento. Di gran lunga preferibile restare da solo. Aveva dei soldi, per una volta si sarebbe potuto permettere di dormire in un alberghetto a una stella. Tuttavia trovare una camera si rivelò più difficile di quanto avesse immaginato, e soprattutto il prezzo era ‘da fuori di testa’.
Il sole stava oramai calando. In lontananza l’ombra inquietante della Mole Antonelliana gli ricordava che la notte non era buona, non in una città affollata di gente di malaffare e di faccendieri di tutte le risme.
Camminò a lungo portandosi fuori dal cuore della città. Senza una meta precisa. Prese al volo un bus di linea, che non sapeva assolutamente dove lo avrebbe sbattuto: una volta accomodatosi sui sedili in fondo, attese di giungere al capolinea.
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