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LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XXVII

Creato il 15 febbraio 2012 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

La lebbra – di Iannozzi Giuseppe

Cap. XXVII

LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XXVII
Preda d’un’esasperata agitazione, Lino corse sino a farsi scoppiare i polmoni. Solo quando il fiato gli mancò letteralmente, oramai incapace di sputare anche solo un semplice ‘amen’, si lasciò cadere in ginocchio. Di Aidha neanche l’ombra. Per quanto i suoi occhi febbricitanti cercassero a destra e a manca, niente: intorno a sé solo un incubo di cemento, quello dell’Augusta Taurinorum.

In ginocchio sul ponte, sotto di sé il fiume Dora scorreva placido e freddo, solcato da nebbie, da fantasmi che solo l’anima di Lino riusciva a scorgere in pose scomposte e accusatrici. La gente gli passava accanto ignorandolo. Non era di certo il primo pazzo che metteva su il suo personale dramma alle spalle di Porta Palazzo, nella zona del mercato del Balôn. La gente c’era abituata a quelli come lui, costituivano un elemento folkloristico vecchio di cent’anni e più.
Sconfitto. Sconfitto sì, ma da chi, da cosa?
Lino s’interrogava e non trovava una risposta che fosse un minimo soddisfacente. Sapeva che ce l’aveva messa tutta per stare dietro ad Aidha. Altro non sapeva.

Sarebbe scoppiato a piangere non fosse stato che davanti gli si parò un mimo con in faccia la maschera de La Muerte. Subito gli fece cenno di levarsi dai piedi, ma quello non fece un passo e, contravvenendo al mutismo che avrebbe dovuto tenere, prese a parlare con un accento metallico: “Perché tu dispera? Forse tu triste, ma tutti tristi. Hai visto anche tu, nessuno qui felice, ognuno ha sue per piangere però non fa. Se tutti piangono, nessuno fa più suo lavoro. Tu avere lavoro? Io vivere per la giornata, così si dice da queste parti… forse anche tu come me. Io non piango. Prima o poi Dio provvede. In un modo o nell’altro, la sua grandezza provvede a noi”.
Sentite queste parole, Lino cacciò il suo sguardo in quello vuoto della maschera: “Tu non sai un cazzo di come mi sento io…”. Avrebbe voluto aggiungere tante altre cose, ma non lo fece, sicuro che quello non avrebbe capito e che, in ogni caso, sarebbe stato il suo un inutile sfogo.
Fece dunque per rimettersi in piedi, con la schiena ben dritta: una cosa giusta l’aveva detta La Muerte, “ognuno ha sue per piangere però non fa”.
“Tu avere bisogno di me?”
La Muerte che gli voleva dare una mano era un’immagine ridicola e divertente. Chissà chi si nascondeva dietro quella maschera. Non era importante sapere… or come ora.
“No, amico. Tutto okay”, e così dicendo Lino si convinse che La Muerte se ne sarebbe andata per la sua strada. Così non fu.
“Tu avere bisogno di me. Io insiste”, disse in tono severo La Muerte: “Io ho cercato te e tu me. Così va il mondo”.
Nonostante il fiato grosso non gli si fosse ancora spento in petto, Lino fu tentato di liberarsi di quello strano personaggio spintonandolo. Bastò tuttavia una parola della maschera per agitarlo e sorprenderlo: “Aidha”.
“Che hai detto?”, sbraitò Lino oltremodo eccitato.
“Io detto che conosco lei. Io sapere dove lei sta”, si limitò a rispondergli serafico il mimo da sotto la sua maschera. E aggiunse: “Tu seguire me e trovare lei”.
Non stette a pensarci su nemmeno mezza volta. Non sapeva davvero in che diavolo d’intrigo s’era andato a cacciare, ma Aidha la doveva ritrovare a ogni costo, anche se questo avrebbe significato perdersi per sempre o finire morto ammazzato, seppellito in un oscuro scantinato.
Docile come un cagnolino, senza fiatare, col fiato grave, prese a seguire La Muerte che da quel momento in poi si chiuse in un silenzio indecifrabile.

(c) Coperto da copyright. Severamente vietata la riproduzione parziale o totale della presente Opera, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 2 di 9.

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