Si continua a disquisire ovunque che il sistema economico
attuale sia, per usare un eufemismo, “disattento” alle necessità basilari che
riguardano l’individuo appartenente alle classi meno agiate, mentre è costantemente in preda ad un insensato
quanto inarrestabile autoalimentarsi. All’inutile chiacchiera da salotto
televisivo s’aggiunge anche “Le leggi del mercato”, film presentato all’ultima
edizione di Cannes che la critica non ha
potuto far a meno di esaltare vista la delicata
tematica sociale.
Mentre questo atteggiamento – per giunta sempre più avallato e promosso dai festival internazionali – di scostarsi dal cinema per concentrarsi sull’argomento-del-giorno diventa preoccupante nel panorama della critica, ci si trova di fronte ad un lavoro che dal punto di vista drammaturgico presenta una piattezza didascalica imbarazzante mentre sul versante visivo non offre alcuno spunto. A dare un po’ di sostegno ad uno sviluppo che semplicemente non esiste c’è il lavoro di Vincent Lindon, bravissimo nel dare sfumature al suo personaggio ma che, ahinoi, non trovano alcun riscontro nel testo.
“Le leggi del mercato”, dunque, che vorrebbe mettere alla prova la dirittura morale del protagonista – e quindi quella di chi guarda – di fronte all’inumanità del sistema neo-liberale, non fa altro che inanellare una serie infinita di luoghi comuni – il padre di famiglia che non trova lavoro; la figura del figlio disabile usata, più che per necessità narrative, per aumentare l’empatia del pubblico "sensibile"; la gente costretta a rubare beni di prima necessità al supermercato – rappresentando una tendenza tanto involuta quanto preoccupante, su queste pagine già segnalata ai tempi di “Taxi Teheran”, che premia il contenuto e si disinteressa totalmente del mezzo. Antonio Romagnoli
