Magazine Cinema
Poche sere fa ho rivisto, dopo diversi anni, "Il processo" di Orson Welles. E' quasi pleonastico dirlo, ma di sicuro non fa male: che film incredibile! La cosa che più mi lascia attonito è il modo con cui Welles riusciva a trasfigurare gli interni labirintici di Kafka, strutture quasi rizomatiche che si ergono sulle rovine del mondo - e del senso. Realtà sotterranee in cui sembra che non esista più alcuna differenza tra esterno e interno. Ogni porta può portare ovunque, eppure non esiste più un fuori, una dimensione ulteriore rispetto a quella imposta dal Processo. L'umanità intera, cifrata, decodificata, numerata, è succube di strutture che non può più dominare: è la legge del mondo, dimentica di Dio e di ogni umana compassione.
Tutto sembra essere contenuto all'interno di quella mostruosa, fetida struttura amministrata che è la burocrazia. Il grandangolo deforma ogni ambiente fino a far credere che non esista più cielo, aria o libertà: tutto è già osservato, visto, scritto, catalogato. Il signor K. - un grandioso Anthony Perkins - è smarrito in balìa di un mondo ormai fuori da ogni canone. Se il testo capitale di Kafka era completamente immerso in una realtà ormai priva di senso, frantumata e terribile, il film di Welles assomiglia sempre di più all'incubo di un sopravvissuto a un campo di sterminio, nella consapevolezza che l'umanità è iscritta a tal punto all'interno di una legge disumana da non poterla più trascendere o negare. La legge è tutto, al di là del bene e del male, al di là del senso o del non-senso. Un condannato è un condannato, non importa se sia colpevole o meno. Welles, con furore espressionista, rinchiude i suoi personaggi nelle celle del mondo, gli fa respirare l'aria asfittica e marcia dell'incubo, mentre segue, in fomidabili piani sequenza, il suo signor K.: tunnel della mente dove la luce abbagliante può filtrare appena, con l'esito di accecare. Non rimane che silenzio e oscurità.
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