Il romanzo La leggenda del cavaliere veloce di Maurizio Rosso (Edizioni Araba Fenice, 2013), appartiene a quella schiera di testi narrativi che, a volte anche assai piacevolmente, rinverdiscono antiche leggende su un sfondo di realtà storica. Una realtà storica che, quanto più è distante e si perde nella notte dei tempi, tanto più è sfumata e inafferrabile a causa della scarsità delle fonti a cui attingere, per assenza di cronache coeve o per sola disponibilità di testi redatti a posteriori, spesso conditi di fantasia e talvolta composti a fini celebrativi per le più svariate ragioni.
Siamo nei tempi lontani e oscuri che precedono l’anno mille in Piemonte. Una regione “barbara” ancora, ricca di foreste, desolata e perlopiù incolta, percorsa da popoli germanici destinati a sovrapporsi alle popolazioni indigene che erano state lentamente, e mai del tutto, romanizzate negli anni dell’Impero romano. Su questo fondale suggestivo si svolge l’azione che ci narra il mito fondativo della casa aleramica che signoreggerà il Monferrato nei secoli successivi.
Il racconto di Maurizio Rosso riprende alcune delle linee essenziali della Cronica del predicatore Iacopo d’Acqui redatta presumibilmente nella seconda metà del Trecento, tre secoli dopo i presunti avvenimenti, ma se ne discosta per finzione narrativa, concentrandosi sul tema del viaggio. Nella Cronica medioevale di Iacopo è presente anche l’avventuroso e romantico episodio della figlia dell’imperatore, Adelasia, che fugge con il giovane Aleramo riparando nei boschi del savonese dove vivranno esercitando il mestiere di carbonai, fino a essere perdonati dall’imperatore allorquando il giovane compirà degli atti di valore riparativi all’assedio di Brescia. Il tema della fuga degli amanti è tralasciato nel romanzo di Rosso, dove invece il giovane cavaliere Aleramo compie un’impresa eroica sul campo di battaglia dalle parti di Acqui, risultando determinante per la vittoria e salvando l’onore dell’imperatore Ottone I sceso in Italia per imporre il suo dominio su alcuni nobili ribelli. Come riconoscimento, così come narrato anche da Iacopo, l’imperatore donerà ad Aleramo la signoria su tutte le terre che egli riuscirà a percorrere in tre giorni di cavallo.
Punto centrale di tutta la narrazione (se vogliamo, è forse la motivazione principale di tutta la leggenda) è il mitema connesso all’origine del nome Monferrato, basato su una etimologia popolare derivata dal dialetto piemontese. Il destriero di Aleramo perde accidentalmente un ferro, e alcuni monaci, incontrati in un’abbazia lungo il cammino, suggeriranno di sostituire provvisoriamente la ferratura, per ridurre la zoppìa dell’animale, legando un pezzo di terracotta sotto lo zoccolo. Il cavallo sarà così ferrato con un “mon” (mattone in dialetto), e da qui il nome di Monferrato. Stranamente il romanzo tralascia di precisare la derivazione fonetica dialettale (forse data per scontata?). Per inciso, si sa che il toponimo può più probabilmente derivare dal latino Mons Ferax, per l’effettiva feracità del territorio, ma questa è altra questione.
Tuttavia, il lato più interessante di tutto il romanzo di Rosso, non è né la ricostruzione storica, né la fedeltà alla leggenda (ininfluenti ai fini della finzione narrativa), ma è l’aspetto fiabesco che connota il romanzo e sulla cui impalcatura è costruita tutta la vicenda. Analizzarne gli aspetti fa la felicità di ogni semiologo-strutturalista. Sono presenti infatti tutte le cosiddette “funzioni” costanti della fiaba (per dirla alla Propp) o i “mitemi” individuati da Levi-Strauss, segmenti narrativi portanti significato.
Troviamo la situazione iniziale che determina i successivi eventi: all’eroe l’imperatore impone una prova da superare e si ha così il tema della partenza e del viaggio iniziatico. L’obiettivo è raggiungere un regno straordinario, o in capo al mondo, di cui l’eroe potrà diventare il principe. Il regno deve avere un nesso con il sole: infatti i suoi vertici stanno orientati ai quattro punti cardinali. Ad esso si aggiunge il miraggio della principessa da sposare. Per affrontare la prova è necessario un dono, che nelle fiabe è spesso rappresentato da un cavallo, così infatti ad Aleramo viene donato il cavallo più veloce dell’imperatore. Poi occorrono degli aiutanti, ed ecco affiancarsi all’eroe i due valorosi scudieri dell’imperatore.
All’inizio del viaggio i tre compiranno un’abluzione a una fonte miracolosa: l’acqua della “bollente” di Acqui. Gli eroi giungeranno anche alla capanna nel bosco, nel racconto fiabesco popolare spesso abitata da una strega benefica o in qualche modo utile: nel nostro è il vecchio pescatore, forse un “mascone”, che li ammonisce di non oltrepassare il fiume Po. Una rivelazione fondamentale. Lungo il percorso si incontrano numerosi ostacoli ed impedimenti: pericoli, malattie, incidenti, fitte e paurose foreste, ma gli ostacoli vengono superati grazie agli aiutanti e a un dono magico: la ferratura col mattone. Ad ogni tappa importante l’eroe marca il confine e impone un segno protettivo: la croce. Nel corso del viaggio si esaurisce la funzione dei doni e degli aiutanti: uno ad uno lasciano l’eroe che infine giungerà da solo a compiere l’impresa.
Una struttura perfetta per un mito fondativo quale è questa bella storia di Aleramo, La leggenda del cavaliere veloce.
Un unico appunto andrebbe fatto per l’assenza di un adeguato lavoro di editing, si tratta tuttavia di inezie che poco o nulla tolgono alla piacevolezza del romanzo, che incalza il lettore ad arrivare “veloce” alla conclusione, come il suo protagonista.