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La leggenda della “skandalopetra”

Creato il 08 febbraio 2011 da Maremagazine
“Di quello di raccoglitori di spugna non ci può essere lavoro peggiore per un uomo, dico, nessun lavoro che porta con sé più dolore.”Oppiano, poeta greco, così descrive il lavoro dei pescatori di spugne in un poema sulla pesca (Halieutica) dedicato a Marco Aurelio.

La leggenda della “skandalopetra”

Pescatore di spugne ai primi del 900

La leggenda della “skandalopetra”
Invece per raccontare le gesta dei leggendari pescatori di spugne dell’Egeo, in particolare quelli dell’isola di Kalymnos, dalle immersioni con la skandalopetra, tradizione che si perde nella notte dei tempi, alle moderne e più sicure, immersioni con scafandri, mute ed erogatori, l’editore greco Militos non ha certo risparmiato sulla carta, anzi! Per il libro Sponge Divers, questo è  il titolo, che ha un formato magnum, trentacinque centimetri in larghezza per quarantacinque in altezza, per la stampa è stata usata una carta da trecento grammi, la stessa che si usa per la stampa dei poster! Il risultato e che il libro pesa quasi sette chili, più del doppio di un qualsiasi altro libro di quel formato e con lo stesso numero di pagine. Quindi per portarvelo a casa venite in libreria muniti di una sacca resistente, oltre che di duecentonovanta euro, tanto costa!

La leggenda della “skandalopetra”

nel libro un pescatore apneista in azione con la skandalopetra

 L’autrice, la giornalista Sue Papadakos, in Sponge Divers, descrive nei minimi particolari le vicende di questo fenomeno unico nella storia della pesca, quella delle spugne. Un’attività che fin dai tempi di Alessandro Magno, si basava, sulle immersioni, usando come zavorra, come freno e come timone la “skandalopetra”, una pietra piatta dagli angoli smussati e dalla forma idrodinamica quasi sempre in granito del peso variabile tra gli 8 e i 14 kg, legata con una fune alla barca. Un compagno sulla barca segue il tuffo dalla superficie e recupera l’apneista-pescatore con la “petra” salpando la fune al termine dell’immersione.

La leggenda della “skandalopetra”

Una skandalopetra conservata nel Museo di Kalymnos

La tecnica pur fondata sull’ignoranza dei meccanismi che regolano le immersioni in apnea e delle leggi fondamentali che ne governano il funzionamento, invece di scomparire nel corso del tempo, ha creato una tradizione, tanto che è stata riproposta con successo negli ultimi anni in qualità di disciplina sportiva dell'apnea, la skandalopetra come “fenomeno” che ha contagiato anche molti apneisti Italiani, sviluppando anche un’attività agonistica.
“Molto prima dei nostri campioni moderni – racconta Jacques Mayol nel suo celebre Homo Delphinus ristampato con il titolo Uomo delfino,  – c'erano degli uomini capaci di prodezze inimmaginabili in immersioni in apnea. Uno di loro fu Haggi Statti, un modesto pescatore di spugne del piccolo porto di Simi, in Grecia. A dire la verità, non sembrava gran che: alto più o meno un metro e settantacinque, aveva un corpo ossuto e magro, d'una sessantina di chili, una muscolatura normale su un torace qualsiasi, ed egli non pensava nemmeno, a quell'epoca, che il suo nome sarebbe diventato quasi leggendario. Siamo nel 1913, e l'uomo ha trentacinque anni. 

La leggenda della “skandalopetra”

Apneista con skandalopetra

È stato convocato a bordo di una delle maggiori corazzate della Marina italiana, la Regina Margherita, ancorata nella baia di Picadia, sull'isola di Scarpanto, nel Mare Egeo,  in seguito al fallimento di numerosi tentativi di recuperare un'intera catena e una delle enormi ancore della nave da guerra, colate a picco su un fondo di un'ottantina di metri, dopo aver falciato al passaggio diversi marinai e causato la morte del comandante in seconda, Giorgio Proli. Haggi assicura al comandante della nave e al medico capo, Giuseppe Musengo, di essere capace, dietro pagamento di una certa somma, di ritrovare la catena e di fissarvi i ganci e i cavi sufficienti ad issarla nuovamente a bordo. L'equipaggio tutto della Regina Margherita e i medici in particolare sono increduli. Durante una visita preventiva, infatti, i medici si rendono conto che, nell'infermeria, Haggi Statti è incapace di trattenere il respiro per più di quarantacinque secondi.
“Oh… ma sott'acqua – dice Statti – è tutta un'altra faccenda
.”

La leggenda della “skandalopetra”

Una doppia pagina di Sponge Divers

 Vedremo nel resoconto del medico di bordo che segue, che aveva ragione.
Personalmente – è sempre Mayoil che parla – ho sempre creduto nella storia di Haggi Statti perché i miei studi sulla materia mi indicavano chiaramente che l'uomo era molto simile, sotto certi aspetti, ai suoi cugini – i mammiferi marini – e, dunque, potenzialmente capace di imprese sottomarine insospettabili.”
Lo studio di Statti diventò per Mayol un progetto che iniziò nel 1973: “la ricerca del “riflesso di immersione”nell'uomo, e lo studio comparato del suo comportamento, dei suoi eventuali meccanismi di adattamento, delle sue attitudini acquatiche, delle sue affinità con i suoi cugini, i mammiferi marini.”
Ma. Bi.
Ecco il resoconto di quell’impresa scritto dal medico di bordo, Giuseppe Musengo
16 Luglio 1913, Mar Egeo sudoccidentale.
Sono il medico di bordo della Regina Margherita. A quel tempo eravamo impegnati nelle operazioni di protezione e sorveglianza della porzione di mare appena conquistata nella guerra coi turchi. La corazzata era il fiore all'occhiello della marina regia: progettata dallo stesso ministro Brin, pesante quasi 15mila tonnellate, fu il varo più importante del glorioso arsenale della mia La Spezia. Il vecchio re Umberto le volle il nome della moglie, ma quell'anarchico con tre colpi di pistola gli impedì di vederne il varo. Ci pensò il figlio, Vittorio Emanuele, lo "Sciaboletta", alla fine del maggio 1901, a benedire la nuova ammiraglia della marina e a imporle il motto: "per l'Onore d'Italia".
Quel giorno, il 16 luglio, nel tardo pomeriggio, dopo quasi una settimana di navigazione, stavamo cercando di dare la fonda a Karpathos, vicino Rodi, nella baia di Pigadia. Ricevemmo segnalazione di un fondale di 30 metri. Segnalazione frettolosa ed errata. In realtà, capimmo dopo, la prua della corazzata si trovava proprio sullo scalino di una fossa profonda più di cento metri. Iniziarono le operazioni di ancoraggio. Io ero in una cabina accanto alla plancetta e sentivo il sottocapo Ferri che scandiva forte: "Dieci metri e non tocca. Venti metri e non tocca. Trenta metri e... non tocca!". Lo strozzatoio non potè nulla. Un colpo, un fracasso infernale e tante urla. L'ancora, srotolata completamente senza raggiungere il fondo, mandò in tensione la catena che creò un violentissimo contraccolpo e strappò di netto il maniglione. Io salii immediatamente, giusto in tempo per vedere gli ultimi anelli della catena tuffarsi urlando nell'occhio della cubia prima che quell'ancora maledetta si depositasse chissà dove. Sul ponte c'erano diversi corpi a terra, ed io ed altri marinai corremmo subito a soccorrerli. La tremenda frustata aveva ferito una decina di gabbieri, solo due gravemente. Un ufficiale giaceva invece riverso in un lago di sangue a faccia in giù, il torace completamente sventrato. Era il comandante in seconda, Proli, morto sul colpo.
Mandammo subito dei palombari alla ricerca dell'ancora, ma non riuscirono a dirci altro se non della presenza della fossa. Il comandante, irritatissimo, diramò allora un appello anche agli abitanti dell'isola, in un clima di generale preoccupazione e imbarazzo.
Il giorno successivo si presentò per primo un buffo tipo, un baffuto pescatore di un'isola vicina, vestito con camicione e braghe bianche. Diceva di chiamarsi Gheorghios Hagistatis. Il comandante appena l'ebbe visto volle cacciarlo via subito, ma data la situazione critica, si controllò e me lo mandò comunque per visitarlo.
Ho ritrovato tra le mie carte il rapporto che redassi quel giorno:
"Georgios Haggi Statti, nativo di Simi, pescatore di spugne, di 35 anni, è ammogliato con 4 figli, tutti sani e viventi. Alto metri 1,70, pesa 65 kg; perimetro toracico 0,92, essendo 0,98 quello corrispondente alla massima inspirazione e 0,90 quello della massima espirazione. Di colorito castano, piuttosto magro, ha uno sviluppo muscolare regolare.
Per quanto all'esame si constati un notevole enfisema polmonare, tuttavia la parte alta del torace non ha ancora raggiunto rilevanti proporzioni pur essendo alquanto convessa e rigida. I toni del cuore si percepiscono lontani, ma regolari.
Polso da 80 a 90, atti respiratori da 20 a 22. Nulla di anormale nel sistema nervoso né nel sistema pupillare. Funzione auditiva ridotta, per mancanza assoluta di una delle membrane del timpano, residui dell'altra. Non ha sofferto di alcuna malattia (salvo un tracoma regresso in seguito ad atto operatorio). Accenna solo a dolori alla colonna vertebrale, e li sopporta rassegnatamente. Invitato a trattenere il respiro nell'ambiente ordinario, si oppose di principio, dicendo che l'esperimento non poteva avere valore perché sott'acqua resisteva assai di più. Infine vi si sottopose, e risultò che la sua capacità in queste condizioni giungeva appena a 40 secondi".
Insomma, a mio parere, aveva un fisico assolutamente inadatto, non solo per affrontare una tale impresa, ma per qualunque tipo di sforzo respiratorio sostenuto. Scuotevo la testa ad ogni misurazione, ma lui era convinto di riuscire; diceva di averlo già fatto altre volte e di immergersi da quando era bambino, ripeteva tranquillo "ta katafe'rno", "ce la faccio". Diceva di poter raggiungere cento metri o di poter stare sott'acqua fino a sette minuti. In cambio del lavoro, pretendeva solamente dell'esplosivo e il permesso di pescare con la dinamite. Nessuno a bordo gli credeva e si voleva cercare qualcuno di più valido. Io ero scettico, ma incuriosito. Ottenne comunque di fare una prova, d'altronde non c'era molto da perdere.
Aveva portato con se una pietra di ardesia piatta e quadrata, pesante una quindicina di chili, da usare come timone, legata ad una corda controllabile dalla superficie. Io volli seguire le operazioni da vicino e insistetti col comandante, con la scusa di poter portare immediato soccorso in caso di bisogno. Sulla lancia eravamo io, lui, il traduttore, due aiutanti e un giovane giornalista di Biella, un tal Pozzo (che, seppi poi, si diede al gioco del calcio). Il mare era calmo e il sole scottava. Georgios si spogliò, rifiutò maschera e pinne, si sciacquò bocca e mani con l'acqua del mare, respirò a lungo e si tuffò, con solo la sua pietra bianca, verso l'abisso. Alla prima immersione, di più di un minuto e mezzo, arrivò a 45 metri. Per me era già un miracolo. Riemerso, buttò fuori l'acqua dalle orecchie e dal naso, pigliò tre respironi e si ributtò subito in immersione. Quel giorno ne fece altre cinque, di durata crescente, fino a raggiungere i 60 metri. Era stanco, ma non stravolto, riusciva a montare sull'imbarcazione da solo e aveva un battito già molto regolare poco dopo l'uscita. Ero stupefatto e gli consigliai comunque di rimandare al giorno dopo. A bordo si sparse subito lo stupore e al rancio della sera non si parlava d'altro che del "fenomeno" greco.
L'indomani mattina ridiscese, e arrivò stavolta a vedere la catena: ci spiegò che si trovava ancora più in basso, su un fondo fangoso e molto pendente. Al secondo tentativo arrivò quasi ad infilare un rampino nel maniglione ma scivolò sul fango, e la pietra lo trascinò fino a più di 80 metri di profondità. Sentito il forte strappo mi misi anch'io a tirare come un forsennato per recuperarlo. Una volta tornato a galla, non volle sentir ragioni e si rituffò immediatamente: quel pazzo arrivò così a fissare il primo gancio. Il terzo giorno, dopo sette immersioni, tutte attorno ai 70 metri, Georgios riuscì finalmente, dopo l'infinito tempo di 3 minuti e 35 secondi, ad agganciare un cavo d'acciaio ad un capotesta. Non potevo credere ai miei occhi: quell'ometto malconcio, che dimostrava il doppio dei suoi anni, con un polmone bucato, i timpani sfondati e che all'aperto faceva fatica a trattenere il fiato per trenta secondi, era appena sceso, nudo, a 77 metri di profondità per legare un cavo d'acciaio! Mai visto né sentito nulla del genere, ero sicuro che un uomo, a quelle profondità, sarebbe morto esploso. Da lì in poi il recupero fu agevole.
Tornati a bordo della corazzata, insistetti per trattenerlo, per studiarlo e capire come riusciva a sopravvivere a un tale sforzo. Evidentemente doveva riuscire a prender l'ossigeno disciolto nell'acqua attraverso la pelle, grazie alla pressione o qualcosa del genere. Ma non ci fu verso: lui voleva liberarsi in fretta, assolutamente incosciente dell'impresa che aveva appena compiuto, per tornarsene presto a Simi, ché tre giorni d'assenza gli costavano cari. Anche il comandante voleva chiudere in fretta quella penosa faccenda: si congratulò freddamente, gli firmò il permesso e lo congedò. Feci appena in tempo a scattargli una foto, prima di vederlo rimontare sulla sua barchetta, fischiettando, carico di candelotti di dinamite.
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