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Libertà e dignità alfabetica: quella B capovolta di ARBEIT MACHT FREI
È rarissimo che accada, ma può accadere.
Una semplice, povera, trascurata, indifesa
lettera alfabetica può, con la sua sola presenza
oggettiva e tangibile, rappresentare
il miracolo assoluto: l’anelito alla libertà e
restituire dignità all’uomo, quando tutto
intorno è precipitato nella notte della follia
e nell’abisso della morte. Quando tutto
sembra perduto e intorno c’è soltanto l’esiziale
ghigno del potere e della forza bestiale,
proprio allora da una semplice lettera alfabetica
può scaturire la rivolta, la forza
estrema della propria coscienza di Uomo.
Questo è accaduto nel 1940, nel campo di
sterminio polacco di Auschwitz (Oswiecim
in polacco), ad opera di un umile artigiano,
un fabbro polacco, prigioniero come altri
milioni in quell’inferno assoluto e totalizzante.
Un capo tedesco del campo, Kurt
Müller, chiede che venga immediatamente
eseguito l’ordine imposto dal comandante
Rudolf Höss, che venga cioè realizzata, e
innalzata all’ingresso del campo di sterminio,
la targa in ferro battuto progettata dallo
stesso Müller, con la scritta Arbeit macht frei,
il lavoro rende liberi, che i nazisti avevano
ripreso, modificandola, da un passo del
Vangelo di San Giovanni, Wahrheit macht
frei, la verità rende liberi, e che a Höss
ricorda i suoi anni di carcere durante il
governo di Weimar. Ma Arbeit macht frei è
anche il titolo di un romanzo del 1872 dell’etnologo
e linguista Lorenz Diefenbach,
che mai avrebbe immaginato il terribile
uso che altri avrebbero fatto di quel titolo.
Una scritta illusoria e beffarda per coloro
che mai avrebbero visto la libertà, morendo
a milioni in quei luoghi (“le tre parole della
derisione […] sulla porta della schiavitù”,
così scrisse Primo Levi ne La Tregua). Della
realizzazione viene incaricato un prigioniero,
il dissidente politico polacco Jan
Liwacz, non ebreo, numero di matricola
1010 tatuato sull’avambraccio, che in
un’altra vita faceva il fabbro, entrato nel
campo di sterminio il 20 giugno 1940. È
lui a dirigere la “Schlosserei”, l’officina
interna al campo che fabbricava lampioni,
inferriate, sbarre, cancelli. Ebbene al
momento di saldare le lettere per comporre
la parola Arbeit Liwacz ribalta la B in modo
che l’occhiello piccolo risulti in basso
rispetto al grande, anziché in alto come la
grafica impone. È questo un gesto più piccolo
di un granello di sabbia del deserto,
ma che in quel contesto terribile e inumano
assume all’improvviso la forza e la grandezza
dell’urlo di Munch e insieme quello
di milioni di vittime innocenti che si ribellano,
unite nel gesto umile e semplice di un
fabbro. Un grido di libertà con le armi
benevoli della grafica, dell’alfabeto, delle
lettere. Nella loro insulsa e bestiale brutalità
razzista i nazisti non si accorsero mai che
quella semplice B capovolta rappresentava
la libertà, la dignità di una moltitudine di
perseguitati, e insieme la rivolta simbolica
contro la barbarie. Liwacz sopravvisse alla
morte e reclamò, giustamente, a liberazione
avvenuta la propria opera di ferro, ritornando
al proprio villaggio Bystrzyca
Klodzka, e dove morirà ottantaduenne.
Alla liberazione del campo il 27 gennaio
1945 ad opera dell’armata rossa, però, la
scritta verrà caricata dai sovietici su un
treno destinato all’Est. Ma un ex prigioniero
del campo, Eugeniusz Nosal, intuendo l’alto
valore simbolico della scritta, la scambiò
con un soldato sovietico in cambio di una
bottiglia di vodka. Sarà nascosta per anni
nel municipio di Auschwitz e donata in
seguito al Museo fondato sui resti del
campo di sterminio. kb
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Inviato il 17 dicembre a 15:22
Un articolo interessante. Mi mancava il romanzo Arbeit macht frei di Lorenz Diefenbach, anno 1872.