Non so per quanto tempo scriverò ancora, forse per sempre, o forse solo fino a domani. Questa è l’epoca in cui nessuno chiede conto delle tue cose. Se ti va bene riesci a “importi all’attenzione della gente” (è così che si dice, ed è sintomatico di tante cose, perché l’imposizione a mio modo di vedere è sempre qualcosa di molto brutto). Il fatto è che sono un tipo che parla poco, quindi se smettessi di scrivere mi priverei di un espediente importante per comunicare. Ho letto molte cose in vita mia, ma non sono mai abbastanza, e non saranno mai tutto. Ne ho scritte anche tante, entro quei confini impraticabili che presenta la mia lingua. Il sentimento che provo per le cose che ho scritto è per lo più indifferenza, spesso fastidio. Provo invidia per la libertà dei poeti, per la loro sincerità, i poeti non sono anime gracili come un mito romantico ci impone di credere, i poeti sono gente tosta, che non teme di mostrarsi nuda, che si libera dei bisogni o se ne rende schiavo fino al massimo grado, in ogni caso persone di carattere. I narratori al contrario peccano di una certa meschinità, sono così maniaci di perfezione, ridondanti, a volte dimessi fino al punto da annullarsi nelle creature di loro invenzione. I narratori pensano sempre a insegnare una cultura morale agli altri uomini, i poeti invece se ne infischiano della morale, sono spiriti traboccanti, anime colme di desiderio. Sostiene Kundera che il romanzo non è un genere letterario, dice testualmente: “È impossibile capire il romanzo se gli si nega una sua specifica Musa, se non lo si considera un’arte sui generis, un’arte autonoma”. Ecco, pensiamo a questo, la distanza che c’è fra un romanziere ed un poeta è la stessa che corre tra un pittore e un musicista. La letteratura non è la grande madre comune. La letteratura intesa come arte maggiore è un’invenzione malvagia.
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