Pubblico oggi un estratto da un saggio sulla letteratura palestinese che mi è stato cortesemente inviato da Silvia Moresi, collaboratrice del blog, che lo aveva scritto nel 2010 in occasione di un concorso istituito dall’associazione “Questioni di frontiera” e con cui aveva vinto. Il saggio intero è scaricabile a questo link. Io ringrazio molto Silvia per averlo messo a disposizione dei lettori del blog, insieme all’anticipazione che qui segue. Buona lettura!
di Silvia Moresi
Presa dalla pagina Facebook di T. Lamri: “Raeda Saadeh, artista palestinese. L’artista, nel 2011, presso l’università Bir Zeit (Palestina) indossa un immenso abito bianco che lascia ricadere per vari metri attorno a lei, come un derviscio rotante. Il pubblico è invitato a deporre sull’abito pezzi di stoffa colorata sui quali ognuno scrive i suoi desideri, sogni… L’artista si carica delle aspirazioni e desideri del popolo”.
Chi impone il proprio racconto eredita la Terra del racconto così dichiarava in un’intervista Mahmud Darwish, uno dei più grandi poeti palestinesi.
Per un popolo senza nazione come i palestinesi, la letteratura, cioè le pagine di scrittori e poeti che narrando eventi personali (e non) ricompongono un racconto collettivo, è l’unica storia possibile. Una contro-narrazione, in cui i colonizzati non siano più oggetti della Storia ma ne diventino soggetti, è l’unico mezzo per riaffermare la propria esistenza, come individui e come popolo.
La letteratura palestinese, come è ovvio, è fortemente influenzata dagli avvenimenti che hanno sconvolto e che ancora sconvolgono la Palestina. Gli scrittori contemporanei si confrontano, anche attualmente, con le tematiche dell’identità, della cancellazione della memoria e dello sradicamento, facendo, appunto, dei loro romanzi e delle loro poesie strumenti essenziali per il doloroso percorso di riemersione esistenziale di questo popolo.
Queste tematiche sono affrontate spesso in maniera molto diversa dagli scrittori dei Territori, d’Israele o da quelli in esilio che vivono il loro essere palestinesi in maniera sostanzialmente differente.
Il concetto di identità, ad esempio, è descritto nelle pagine degli scrittori arabi d’Israele come un qualcosa di schizofrenico. Questa comunità esiliata nella sua stessa Terra, non ha un luogo in cui sognare di poter tornare. Il movimento sionista, infatti, con la distruzione reale e concreta della Palestina, ma anche con la distruzione della sua narrazione storica e simbolica, cercò di rendere questo territorio un blank space, una pagina bianca su cui poter ri-scrivere una nuova storia, attraverso il processo di rebraizzazione della terra.
Fiumi, città e villaggi furono rinominati secondo nomi biblici e persero i loro nomi arabi, tutto fu reso irriconoscibile per i palestinesi rimasti che, di colpo, diventarono una comunità che non era al suo posto. Insomma, una sradicamento storico e culturale per determinare un oblio identitario. Emile Habibi, forse il più famoso scrittore arabo israeliano, così scriveva:
La mia patria? Io mi sento come un profugo in un paese straniero. Voi sognate il ritorno e vivete questo sogno, ma io, dove ritorno?
(L’amore nel mio cuore, Emile Habibi, in Palestina. Tre racconti, a cura di Isabella Camera D’afflitto, Ripostes 1984).
Sayed Kashua, scrittore arabo israeliano contemporaneo che scrive in ebraico, racconta in maniera perfetta nei suoi due romanzi, Arabi Danzanti e E fu mattina, tutta la precarietà di un’ identità in bilico tra due culture, una a cui si appartiene e l’altra, a cui ci si vorrebbe assimilare per sopravvivere, che ti rifiuta:
Sembro più israeliano di un israeliano calzato e vestito. Sono sempre contento quando gli ebrei me lo fanno notare. […] Un tempo si capiva che ero arabo. Mi riconoscevano. [...] Non mi ero mai sentito così umiliato. Fu per quello che mi trasformai in un esperto di simulazione di identità.
(in Arabi danzanti, Sayed Kashua, Guanda 2002).
Il passaporto, e in generale i documenti con cui vengono verificate le identità, sono, invece, una vera e propria ossessione sia per gli scrittori palestinesi in esilio, come per quelli dei Territori che li riportano costantemente nei loro romanzi. Mahmud Darwish dedicò a questi due oggetti ben due poesie: Passaporto e Carta d’identità, come metafore di una identità cancellata o per affermare che il legame di un popolo con la propria terra non può essere sancito solo da un passaporto.
Nella letteratura prodotta dagli scrittori palestinesi dei Territori, i documenti, invece, vengono spesso citati come strumenti indispensabili per potersi muovere all’interno di quella prigione reale e psicologica in cui sono segregati. Il dover chiedere costantemente permessi per poter compiere anche i più semplici spostamenti, il dover affrontare ore di interrogatorio ai check point può diventare talmente frustrante da far desistere da qualsiasi spostamento e abbandonarsi ad una inerme immobilità.
Suad Amiry, scrittrice contemporanea che vive a Ramallah, ben descrive questa situazione di segregazione, alla quale ci si può opporre solo con il sumud, ossia quella resistenza “passiva” all’occupazione fatta di piccole sfide quotidiane da vincere:
Ogni giorno toglievano il coprifuoco per ragioni umanitarie [...]. A volte mi rifiutavo di uscire di casa in segno di sfida nei confronti della decisione degli israeliani: “Adesso potete uscire dalle vostre case e correre come pazzi, mentre noi vi sorvegliamo tenendovi il fucile puntato addosso, non si sa mai.
(Sharon e mia suocera, Suad Amiry, Feltrinelli 2003)
Lo sradicamento reale e concreto vissuto, invece, dagli scrittori in esilio, dà vita a due sentimenti spesso in antitesi: da una parte la ghurba, una struggente nostalgia per la patria persa, una malattia incurabile, e dall’altro quasi un odio verso la stessa Terra. Nella cosiddetta “memoria dello sradicamento” (dhakirat al-iqla’) infatti, la Palestina diventa un paradiso perduto, mitico e idealizzato, o un fardello di cui doversi liberare, ricercando a tutti i costi una nuova nazionalità per tentare di alleviare il peso della propria palestinesità.
Così scrive in Ho visto Ramallah Murid al-Barghuthi (Illisso 2005):
Dicevo ai miei amici egiziani che la Palestina è verde, coperta di alberi, cespugli e fiori selvatici. Cosa sono queste colline spoglie e aride? [...] Ho dato agli stranieri un immagine ideale della Palestina perché l’avevo perduta?
Mentre in Palestinese! E altri racconti Samira Azzam (Edizioni Q 2003) dice:
Duemila erano davvero una grossa cifra per lui. Anni prima non aveva accettato di pagarne un quarto per avere «un nonno libanese di un ottimo villaggio» [...]. […] lo avrebbe fatto nascere in Libano invece che in Palestina. [...] Quella leggera modifica lo avrebbe liberato dalla parola «Palestinese» che lo riduceva a membro di un branco in cui si cancellavano i tratti delle persone. La pronunciavano con tono pietoso, lui non voleva essere commiserato.
La Palestina dunque, amata, odiata, portatrice di vita e di morte, la Palestina come passato o come presente, in tutta la letteratura di questi scrittori non rappresenta solo una “patria” concreta, ma è metafora di una condizione ben precisa. Al contrario di quanto il sionismo aveva raccontato all’Occidente sulla inesistenza di questo popolo, la “palestinesità” è una condizione talmente radicata che crea sofferenza e angoscia e che, per sussistere in più di sessanta anni, non ha avuto bisogno di uno stato politico che la riaffermasse costantemente.
Paradossalmente, la Palestina è l’esilio, si è stranieri ed esuli sia dentro che fuori di essa; il palestinese è metafora di “straniero”, il sans-papiers per eccellenza, colui che non ha documenti che lo “definiscano”, ma dei quali non ha bisogno per potersi “definire”.
Dopotutto, come scriveva Mahmud Darwish: Chi sono? E’ un problema degli altri.