Settanta anni fa il CNL Alta Italia proclamava l’insurrezione in tutti i territori ancora occupati e iniziava ufficialmente la Liberazione dal nazifascismo. Ufficialmente. In realtà, oltre al fatto che i partigiani operavano già da tempo alla macchia, gli alleati avevano messo piede a Licata ben due anni prima, senza l’aiuto di alcuna frangia ribelle siciliana. Da ciò risulta evidente (e giusta) l’identificazione d’ufficio fra Liberazione e movimento partigiano. Lasciando in secondo piano l’intervento anglo-americano, oggi per noi rivive il sacrificio di quegli italiani che, pur rifacendosi a tradizioni politiche diverse, morirono in una spietata guerra civile per autodeterminarsi come nazione libera e giusta, cementificati da un moto solidale contro i tedeschi e la sanguinaria prepotenza fascista. Qualcuno dice che il loro fu un contributo marginale, ma tutti gli storici ammettono la loro fondamentale azione di indebolimento delle retrovie dell’Asse, oltre le linee non ancora superate dalle milizie alleate, e di intelligence nei tanti borghi in cui agivano col favore segreto di compaesani e cittadini rimasti nelle case.
La Sicilia invece visse per due anni su un altro pianeta, rispetto ai fatti richiamati dal 25 aprile 1945, ed è facile pensare che il passaggio dal regime fascista a quello alleato fu percepito più o meno tiepidamente come un cambio di guardia, sulla falsariga del racconto che Tomasi Lampedusa fece del passaggio precedente, dal regno borbonico a quello “savoiardo”. Vero è che Carmela Zangara ricordò qualche anno fa gli oltre 2500 partigiani siciliani riconosciuti dall’Istoreto, ma questi prestarono quasi tutti servizio nelle brigate della resistenza piemontese o diedero prova di coraggio nelle altre regioni del centronord. Non conoscendo dunque storie di guerriglia civile ambientate nei monti Sicani simili a quelle consumate nell’alto appennino, è facile associare l’aria che si respirava da noi nel luglio del 1943 a quella che regnava nel giardino del principe di Salina, distaccato e lontano dai tumulti. E non perché in Sicilia ci fossero solo nobili aristocratici: basta guardare con gli occhi di Robert Capa la campagna di Troina, i primi di agosto del ‘43 nella foto qui sotto, per intuire le spalle larghe e ben salde del popolo che vide arrivare i giganti americani come vedeva il cambio delle stagioni sulla terra, occhi bassi sui campi o stretti sull’orizzonte del burrone all’inciampo del gregge.
Aggiungendo che il cambio di guardia avvenne in una Sicilia forte di una pregressa rete sociale mafiosa, già alternativa allo stato dei Savoia quanto poi al sistema fascista che dal ’25 provò a contrastarla con Mori, la differenza marcata da quei due anni di separazione dall’Italia ancora in guerra dovrebbe far ipotizzare un atteggiamento più tiepido dei meridionali nei confronti di questa ricorrenza, rispetto al sentire degli altri italiani al centronord. Non c’erano siciliani nei boschi di Monte Sole o nel gruppo di azione che uccise trentatré tedeschi in via Rasella a Roma. Le città dell’isola non furono aperte dalla baionetta ma dal ciclico fuoco del sole estivo sui campi inermi. Altra storia è la nostra, da quella del partigiano Johnny; altra genesi hanno i nostri scrittori, da quella di poeti combattenti come Roversi o di scrittori in trincea come Rigoni Stern; altro sapore l’esperienza di solidarietà, da quella di Antonio Zanella o padre Turoldo. La loro utopia splendente aveva accenti friulani, emiliani, veneti e così via.
Allora perché mi si gonfia il cuore per lettere come quella di Battista Vighenzi alla moglie Liana e per altre come la sua? Perché i sorrisi liberati sotto il duomo di Milano o sulle rotaie del tram, fra i palazzi umbertini della penisola, mi danno una gran pena quando penso ai politici che oggi infangano la memoria di quella rinascita? Forse è solo un fatto di sensibilità personale, una questione di istruzione scolastica. E resta che, al centronord, anche chi non ha un livello di istruzione alto è più vicino di noi siciliani alla memoria dei fatti avvenuti intorno alla Liberazione. Perché c’è qualcosa che va al di là delle nozioni apprese fra i banchi, un vissuto sedimentato che si tramanda la gente che ha affrontato una determinata vicenda in un territorio ben preciso. Perciò, pur recuperando con intelligenza e sensibilità un fatto lontano nel tempo e nello spazio, quanto lontani furono anche la cultura e l’humus che lo favorirono, rispetto a quelli da cui sono uscito io, non posso che ammettere la memoria della Liberazione come fatto intellettuale ed emotivo, senza poter dire di averla autenticamente “nel sangue”. Non che questo ne indebolisca il modello di integrità e l’orgoglio di appartenere alla stessa gente che rivendicò con il suo sangue quegli altissimi ideali.
Eppure, nel tempo ancora breve della nostra storia, i partigiani sono arrivati anche in Sicilia, martiri laici all’altare di libertà e giustizia, modelli di umanità che hanno pagato col sangue e onorato gli stessi valori che l’altroieri mossero il coraggio di tante brigate della Resistenza, contro l’invasore straniero e quello incancrenito all’interno della loro stessa comunità. Ieri, fra gli anni Ottanta e Novanta, l’esempio di tanti caduti per mafia divenne patrimonio di tutti gli italiani onesti e, rinnovando il sacrificio di tanti nostri padri costituenti, termine di paragone con cui confrontarci disperatamente sulla dignità del nostro agire politico. Oltre alla loro memoria, poi, insiste oggi anche la prova vivente di resistenza umana che ormai da anni i terroni (cioè persone schiette e vere come la terra di cui siamo fatti) continuano a dare generosamente al largo delle nostre coste davanti l’Africa, nell’isola dei lampi, ripescando i nostri simili in ultima fuga dall’orrore della guerra: una fratellanza basata sul numero dei vivi che, prima di qualunque altra cosa, mette al centro la dignità della persona. Liberaci dal mare, intitola oggi il Manifesto. Ecco, allora, che il vissuto tramandabile solo in un territorio ben preciso passa miracolosamente la linea di confine al centro Italia, annulla il tempo trascorso dal luglio del 1943 all’aprile del 1945 e, lasciando a ognuno il suo stile, nel rilancio di uno stesso furore trasforma il partigiano friulano nel giudice siciliano, don Turoldo in padre Puglisi, Giorgio Bocca in Pino Maniaci, Antonio Zanella in Giusi Nicolini, me in figlio della Resistenza e le mulattiere innevate d’alta montagna in onde bianche del mare aperto.