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La libertà dentro un fazzoletto tricolore

Creato il 25 aprile 2011 da Albertocapece

La libertà dentro un fazzoletto tricoloreAnna Lombroso per Il Simplicissimus

Mio padre aveva bellissimi occhi chiari, un po’ cangianti. Belli ma severi. Con noi e con me in particolare era tenerissimo e carezzevole, ma l’impressione che trasmetteva al di fuori della famiglia era del governo consapevole di una forza tranquilla, ferma e un po’ aerea, fredda forse, autorevole ma lontana, come sollevata dai mortali.
Raccontava pochissimo della “sua” resistenza: aveva il dono della leggerezza, nulla in lui era enfatico o retorico – ed era il motivo di certe discussioni un bel po’ accese con il suo amico Pertini – perché non era di quelli che amano incondizionatamente i popoli, le patrie, tutta l’umanità e tutti i giovani.
Distingueva: amava alcune persone, prediligeva gli esclusi dei quali pensava fosse amabile oltre che doveroso farsi carico. Voleva bene a un posto pieno di bellezza che si chiama Italia. Il tricolore gli piaceva perché c’erano i colori del suo fazzoletto dei partigiano. E aveva un profondo commosso affetto per i suoi compagni. Quei ragazzi uguali ai giovani uomini un po’ scapestrati, innocenti e sprovveduti che avevano fatto l’unità di quel bel posto, senza riuscire a fare del tutto gli italiani.. se si erano piegati al fascismo.
Ma lui e i suoi compagni erano bene attrezzati di speranza. Questo lo si capiva anche guardandoli anni dopo. Quelli che erano rimasti integri e che andavano avanti a testa bassa ma con stessi occhi cangianti che invece guardavano in alto, convinti che quella resistenza era stata fatta per liberarsi dai fascisti e dai nazisti, ma anche dall’iniquità del profitto, dalle disuguaglianze e per ristabilire diritti e dignità di popolo e di uomini.
Sono stati loro a farmi amare la parola compagno. Che sussurrata dall’uomo che amo mi dà l’orgoglio della condivisione e della bellezza di un vincolo fondato sull’amore. E che continuo a usare con fierezza per chiamare chi come me ha gli stessi sogni di quei ragazzi che ho visto già maturi, invecchiare indomiti e incuranti delle disillusioni.
Si di loro mi è restato insieme a quel fazzolettino tricolore, a quei distintivi, ai loro volantini, conservati nel doppio fondo di una valigia che un giorno teatralmente si aprì su un marciapiede della stazione di Treviso e furono aiutati a raccoglierli da un’ignara SS, ai loro giornali, alle loro foto di ragazzi eroici, si di loro mi è rimasto quel senso di solidarietà che viene dall’essere uguali nelle differenze e nel rispetto dolcemente fermo e indulgente per “altri pensare”.
Erano convinti che è terribile aggredire e derubare, perfino una bugia al nemico era per loro una profanazione dell’autentico concetto di fratellanza umana. E la liberazione per loro era stata il momento perfetto e simbolico per cancellare un paradosso: quello di ritenere invece accettabile che alcuni qui o altrove patiscano la fame mentre altri qui o in altre nazioni “godono di inique eccedenze”.
La loro era una grandezza domestica, la “fortezza” elevata di chi è così dotato di speranza e onore e saggezza da non avere bisogno di altri beni.
Oggi voglio pensare e sono sicura che ce ne sono ancora di “giusti” che coltivano il loro giardino, come voleva Voltaire, contenti che sulla terra esista la musica… tipografi che compongono bene questa pagina che forse non piace loro. Donne e uomini che leggono le terzine finali di un certo canto, proprio come scrive Borges.
Vorrei che oggi ci sentissimo insieme, noi, loro perché “tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo”.


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