Nel corso del 2011, quando le sponde meridionali del Mediterraneo furono teatro di eventi che hanno portato alla dissoluzione di alcuni regimi politici preesistenti, soprattutto in Nord Africa, in Libia solo l’intervento militare internazionale rese possibile l’estromissione dal potere del colonnello Gheddafi, dopo quarantuno anni: dapprima attraverso l’imposizione di un’interdizione di volo nello spazio aereo libico, in particolare a Bengasi, e successivamente attraverso l’operazione NATO “Odissea all’Alba”, che fornì sostegno militare ai ribelli.
LA LIBIA OGGI
La Libia post-Jamahiriya è fonte di grande instabilità. La caduta del regime di Gheddafi ha destabilizzato il paese, dove è in fase di ridefinizione il rapporto tra i diversi livelli identitari presenti: l’identità nazionale, l’appartenenza regionale e l’affiliazione clanico-tribale. Anche all’interno di tali identità sono presenti motivi di conflittualità, come dimostrano gli scontri tra diverse milizie o le pretese di autonomia da Tripoli da parte della Cirenaica. [1]
Il quartier generale delle Forze speciali dell’esercito libico a Bengasi è stato conquistato dai gruppi islamisti e caccia militari sorvolano la città, dove le milizie islamiche di Ansar al-Sharia hanno dichiarato l’istituzione di un “emirato islamico”. L’esito delle elezioni dello scorso 25 giugno, poi, non permette certo di rispondere al desiderio di stabilità politica e di pacificazione interna.
Sono questi gli elementi che fanno oggi della Libia una terra di nessuno, dove giornalmente governativi, milizie, islamisti e banditi si scambiano punti di vista a colpi di armi, attentati e sequestri.
EGITTO, ALGERIA E TUNISIA TEMONO LA POLVERIERA LIBICA
Quando Gheddafi venne estromesso dal potere e fu ucciso per mano delle forze eversive il 20 ottobre del 2011, forse non si pensava ad un simile destino per la Libia; o forse sì, dato che non era poi così difficile immaginarselo. “Riceviamo rapporti che indicano jihadisti libici e tunisini rientrare nei Paesi d’origine per creare filiali dell’ISIL (lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante) in Nord Africa”, affermò una fonte della sicurezza algerina al quotidiano “al-Qabar”. Il presidente egiziano Abdal Fattah al-Sisi, impegnato a tessere una complicata tela diplomatica per raggiungere il cessate il fuoco tra Israele ed Hamas sul confine orientale, si è recato in visita in Algeria al fine di sviluppare relazioni strategiche tra i due Paesi per arginare la minaccia islamista sul Nord Africa. “La Libia va verso la secessione di tre Stati: Bengasi, Tripoli e Fezzan, e il governo egiziano è decisamente contrario alla frammentazione di uno Stato alle porte del proprio paese”, ha affermato l’esperto di strategia Ahmad Abdal Hamid.
Le forze militari algerine, dal canto loro, hanno condotto numerose operazioni contro i campi di addestramento dei terroristi in Libia, grazie all’assistenza delle milizie di Zintan e della tribù dei Warfalla, che controllano la città di Bani Walid.
Anche la Tunisia ha impiegato il suo reggimento di elicotteri d’attacco dell’esercito contro gruppi terroristici a Ghardimau e nel governatorato di Jinduba. [2]
I PROTAGONISTI DEL DOPO GHEDDAFI
Il governo libico imposto dalla NATO non è riuscito ad esercitare la propria autorità sul territorio nazionale e la Cirenaica è già considerata indipendente. L’8 marzo i ribelli, per la prima volta, hanno rifornito una petroliera battente bandiera della Corea del Nord nel porto di Es Sider ed il governo di Tripoli non è stato in grado di impedire all’imbarcazione di raggiungere le acque internazionali.
Qualche giorno dopo, il Congresso Generale libico, ha sfiduciato il primo ministro Ali Zeidan ed ha affidato l’incarico al ministro della Difesa, Abdullah al-Thinni.
Ali Zeidan fugge in Germania attraverso Malta, mentre il procuratore generale diffondeva un mandato di arresto nei suoi confronti per appropriazione indebita. [3]
Il nuovo Primo ministro libico Abdullah al-Thinni si è a sua volta dimesso senza formare un governo, affermando di avere subito un attacco armato, mentre era in macchina con la sua famiglia: “Io non accetto che i libici si uccidano a vicenda per questo posto”, ha dichiarato il Primo ministro dimissionario. [4]
Il 14 maggio, quindi, il Parlamento libico si riunisce per eleggere il nuovo primo ministro: Ahmed Maiteeq, un uomo d’affari islamista del clan di Misurata, sostenuto da partiti islamisti, tra cui Al-Watan (che comprende capi di Al-Qaeda) ed i Fratelli Musulmani, è stato eletto al termine di una seduta parlamentare controversa.
Dopo un’interruzione di un’ora della copertura televisiva, Maiteeq Ahmed è risultato eletto con 121 voti. I suoi oppositori sostengono che la sessione era stata chiusa e molti membri del Parlamento avevano lasciato l’aula, ritenendo dunque non valida l’elezione. [5] La Corte Suprema libica ha poi annullato l’elezione ritenendola viziata da irregolarità e l’ex Primo Ministro dimissionario, Al-Thinni, ha riferito che avrebbe mantenuto la guida del Governo finché non sarebbe stata ristabilita una situazione di legalità. Nel frattempo il Congresso Nazionale Generale (CNG) ha approvato un atto d’accusa nei confronti dello stesso Abdullah Al-Thinni oltreché del suo predecessore Ali Zeidan per non aver governato al fine di assicurare la sicurezza del Paese e per questo ha dato mandato alla Banca Centrale di congelare i beni del governo. [6]
Ma l’incertezza e l’instabilità politica e sociale, hanno portato un altro protagonista alla ricerca della ribalta: Khalifa Haftar che ha esordito definendosi il “salvatore” della Libia dai gruppi integralisti islamici, organizzando un attacco contro il Parlamento di Tripoli e lanciando una campagna militare a Bengasi contro i gruppi islamici armati, come Ansar al-Sharia [7], definita “Operazione dignità”.
Haftar è un ex generale di 71 anni, proveniente dai ranghi dell’accademia militare di Bengasi, ha partecipato al colpo di stato del 1969 che portò al potere Muammar Gheddafi, per poi smarcarsene. Durante la guerra tra Libia e Ciad (1978-1987), Haftar viene fatto prigioniero dall’esercito di N’djamena ed è a questo punto che entrano in campo gli Stati Uniti: lo liberano con un’operazione dai contorni non chiari e gli concedono asilo politico. Negli Usa si unisce ai ranghi della diaspora libica e diviene un collaboratore della CIA. Fa ritorno a Bengasi nel marzo 2011 e viene nominato capo delle forze di terra dal Consiglio nazionale di transizione (Cnt), braccio politico della ribellione. Ai suoi ordini ci sono molti ufficiali del regime che hanno abbandonato Gheddafi, ma le autorità del “governo” di transizione lo considerano avido di potere e temono che punti ad instaurare una nuova dittatura militare.
I LIBICI DISERTANO IL VOTO
Gli ultimi tre anni di disordini hanno lasciato in eredità alla Libia pochissime ed inefficaci istituzioni, la mancanza di un vero e proprio esercito per imporre l’autorità dello Stato e disarmare ex combattenti e militanti fondamentalisti che ricorrono alla forza per imporre il proprio volere.
Approfittando dell’instabilità del Paese, il 25 maggio gli Stati Uniti hanno inviato 1000 marines della nave d’assalto anfibio USS Bataan presso le coste libiche, in vista dell’evacuazione dell’ambasciata statunitense. Nel frattempo Washington aveva suggerito ai suoi concittadini in Libia di “partire immediatamente“. Muhammad al-Zahawi, capo della milizia gihadista Ansar al-Sharia, per l’occasione ha ammonito contro qualsiasi interferenza degli Stati Uniti nella rivolta in Libia: “Ricordiamo all’America le sconfitte in Afghanistan, Iraq e Somalia; dovrebbe affrontare qualcosa di molto peggio in Libia. E’ stata l’America ad inviare Haftar ed a portare il Paese verso la guerra e lo spargimento di sangue“.
Il 25 giugno hanno avuto luogo le elezioni legislative, due anni dopo quelle che sono state definite le prime elezioni libere del CNG dopo la caduta di Muammar Gheddafi; in realtà, esse hanno condannato la Libia ad un perenne regime di transizione che ha acuito l’instabilità politica e l’impossibilità di esercitare l’autorità dello Stato su tutto il territorio. Le milizie fondamentaliste controllano diverse città nel Paese e contro di loro l’ex generale Haftar, emancipandosi dal controllo del governo, ha lanciato la propria campagna militare. In una situazione in cui nascono gruppi che cercano di imporre il proprio volere in misura uguale e contraria, l’Unione Europea ha sottolineato l’importanza di queste elezioni per uscire dal pantano in cui si trova il Paese. Ma solo 630.000 libici su 3,4 milioni si sono recati alle urne, con un’affluenza del 18,50%. L’81,5% dei cittadini libici, dunque, ha preferito non partecipare alle elezioni legislative.
Il 4 agosto si è insediata la nuova Camera dei rappresentanti a Tobruk , a causa delle violenze in corso a Bengasi che hanno imposto lo spostamento della sessione. Nel corso della prima seduta, avvenuta alla presenza di 158 deputati su 188 è stato eletto il nuovo presidente della Camera: Ageela Salah Issa Gwaider, di Guba nell’est del Paese.
TRAMPOLINO PER L’EUROPA
La situazione della Libia è il frutto del fallimento della NATO, ma soprattutto dell’Unione europea che nelle intenzioni avrebbe voluto garantire l’esito democratico di questa travagliata transizione libica, ma che si trova ad affrontare un esodo senza precedenti, una nuova tratta di uomini di cui la Libia rappresenta idealmente un “trampolino” per centinaia di migliaia di migranti provenienti da ogni parte dell’Africa e delle aeree del vicino Oriente tormentate dai conflitti, che in Libia si imbarcano su carrette della morte per attraversare il canale di Sicilia e raggiungere l’Europa. Nello specifico è l’Italia a dover sostenere lo sforzo maggiore nell’affrontare l’ondata migratoria, data la vicinanza alle coste libiche. Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, in visita al Cairo ha recentemente affermato: “il 97% dell’immigrazione clandestina che arriva in Italia viene dalla Libia. Se vogliamo risolvere il problema dell’immigrazione, dobbiamo risolvere il problema della Libia. L’Italia porrà il problema alla Nato in occasione del prossimo vertice del 4-5 settembre. L’Onu deve mandare un inviato speciale”.
LE AMBASCIATE SI SVUOTANO
Il “grande progetto democratico” previsto per la Libia non sembra poter avere attuazione, poiché l’unico pluralismo evidente nel Paese è quello dei gruppi armati che non sembrano avere l’interesse o l’inclinazione a condurre lo scontro sul piano politico. L’intensificarsi delle violenze e degli attacchi tra milizie rivali vicino all’aeroporto della capitale ha portato all’evacuazione di molte rappresentanze diplomatiche: quella americana lo fa per la seconda volta, la prima avvenne in seguito all’uccisione dell’ambasciatore Chris Stevens, nel corso di un attacco alla sede diplomatica a Bengasi, nel 2012. Lo stesso hanno fatto Germania, Francia, Olanda, Portogallo, Canada, Bulgaria, Serbia, Arabia Saudita e Algeria. Il Foreign Office inglese ha diramato l’ordine a tutti i cittadini britannici di lasciare immediatamente la Libia e ha drasticamente ridotto il personale della propria ambasciata.
L’ambasciata italiana a Tripoli è una delle poche ad essere pienamente funzionante anche se l’Unità di crisi della Farnesina ha avviato il piano di rientro volontario dei nostri connazionali. Sulla situazione il ministro degli Esteri Federica Mogherini, indica due piani d’azione, uno interno e uno internazionale. Da una parte è necessario “ricondurre gli sforzi” nel quadro Onu, in quanto “riferimento internazionale che garantisce efficacia e imparzialità”, dall’altra il “passaggio fondamentale” è l’entrata in funzione del nuovo parlamento libico per consentire di sostituire al piano del confronto militare tra fazioni quello del dialogo politico.
LA QUESTIONE ENERGETICA
Intorno alla Libia c’è sempre più terra bruciata, tra le fazioni fuori controllo che si combattono dalla periferia di Tripoli fino a Bengasi e con i suoi depositi di carburante in fiamme che hanno portato il Paese ad un crescente isolamento.
Nei giorni scorsi l’Eni ha trasferito i suoi tecnici del giacimento nordoccidentale di Mellitah sulla piattaforma offshore di Bouri a 120 chilometri dalle coste libiche, segno che il livello di sicurezza nel paese è preoccupante. [8]
Secondo le statistiche del Middle East Economic Survey (MEES), la produzione nei primi mesi del 2014 si è attestata tra i 200 mila e i 500 mila barili al giorno, contro i circa 1,7 milioni di barili prodotti prima del conflitto del 2011.
Se la produzione dovesse proseguire a singhiozzo il governo dovrebbe attingere dalle proprie riserve e dai fondi sovrani per evitare una crisi fiscale. Le compagnie petrolifere, nelle ultime settimane hanno garantito l’estrazione del greggio solamente dai giacimenti off-shore , nelle acque libiche, come nel caso dell’italiana ENI che ha dichiarato un calo della produzione della compagnia di circa 270 mila barili giornalieri rispetto al periodo precedente alla rivoluzione. Altre compagnie internazionali, come la Shell hanno sospeso le attività a causa delle condizioni di sicurezza e dei risultati insoddisfacenti, o la BP che ha abbandonato una parte significativa del programma d’investimento da 20 miliardi di dollari. [9]
QUALE FUTURO PER LA LIBIA
La fine del regime di Gheddafi chiude un capitolo della storia della Libia durato quarant’anni e inaugura una stagione nuova, che nelle intenzioni a dir poco ingenue di alcuni si propone come fine ultimo l’instaurazione della democrazia liberale. Ma appare ovvio considerare le difficoltà che si frappongono alla realizzazione di un sistema democratico in un paese che possiede ben diversi requisiti culturali, politici e storici.
Una punto cruciale sul futuro della Libia riguarda il ruolo futuro delle potenze occidentali, che tanto peso hanno avuto nell’estromissione e nell’eliminazione di Gheddafi. Tra queste l’Italia è quella che forse più di altre dovrebbe avere l’interesse a contribuire alla stabilità della Libia ed al rafforzamento dell’autorità centrale, per ragioni storiche, geografiche e strategiche. L’Italia non può aggiungersi a quella schiera di stati che sembrano rassegnati alla frammentazione della Libia in una costellazione di fazioni e potentati.
NOTE
1)La Libia dopo Gheddafi, marzo-aprile 2012, Osservatorio di Politica Internazionale;
2) La situazione in Libia dal 20 maggio al 9 luglio 2014; 9 luglio 2014; Aurora- Bollettino d’informazione internazionalista;
3) Le Premier ministre libyen se réfugie en Allemagne; 18 marzo 2014; Réseau- Voltaire;
4) Le Premier ministre libyen démissionne avant de former un gouvernement; 14 Aprile 2014, Réseau Voltaire;
5) Coup d’État islamiste en Libye; 5 maggio 2014; Réseau Voltaire;
6) Libya Supreme Court rules over the governement’s legitimacy, 5 giugno 2014; Al-monitor;
7) Traducibili come “i partigiani della Sharia”, il gruppo è uno dei principali attori delle dinamiche politiche e strategiche nell’est libico; principalmente formato da un numero di milizie di estrazione islamista che hanno partecipato agli eventi del 2011, in particolare le brigate Abu Obayda bin al-Jarah; le brigate Malik e il gruppo dei martiri del 17 Febbraio. La prima volta che il nome del gruppo è però salito agli onori delle cronache è stato nel settembre 2012, quando Bengasi è stata scossa da un attacco terroristico contro il consolato americano che ha portato alla morte dell’ambasciatore americano in Libia. Il suo leader è Mohammad al-Zahawi, 46enne di Bengasi, che ha reiterato, in più occasioni, la volontà del gruppo di deporre le armi qualora la nuova costituzione garantisse l’applicazione della Sharia.
8) Chiudono le ambasciate, Libia allo sbando; ISPI online; 28 luglio 2014
9) Background-Libia: l’importanza del petrolio; ISPI; 25 giugno 2014