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La linea politica del governo

Creato il 25 settembre 2013 da Funicelli
Da New York, Letta ci fa sapere che sarà fondamentale per il proseguio del suo governo, la prossima legge di stabilità.
Fatta in Italia e controllata in Europa, perché così dicono i patti che noi abbiamo firmato (non li ha imposti la Merkel).
Non una parola netta sul caso Telecom: poteva usare i poteri della golden share, ma ha preferito ricordare il libero mercato (che è libero solo quando fa comodo).
Telecom sarà presa dagli spagnoli di Telefonica, per soli 300 ml di euro. Un aumento di capitale sottoscritto grazie al prestito delle banche iberiche, sostenute dai prestiti della BCE.
E' il destino di Telecom, essere comprata senza soldi veri, tra l'altro da una società che è pure più indebitata (51 miliardi, contro i 30 di Telecom).
Ma agli spagnoli interessano solo le controllate in sudamerica. E in Italia? L'occupazione sarà difesa? E la tanto sbandierata agenda digitale?
Silenzio, ci sono le larghe intese. Parola che a Monti non fa piacere, abbiamo saputo ieri dall'intervista alla Gruber. Dove rivendicava le sue poche riforme: quelle sulla difesa (che alla fine tagliano soldati ma aumentano le possibilità di spesa del ministero), sulle pensioni (dimenticandosi degli esodati).
E le riforme di Letta, quale è la sua linea politica? E di aiuto l'articolo sul Fatto Quotidiano di Stefano Feltri

sembra una questione di principio: per il Pdl bisogna evitarlo perché non si aumentano le tasse, per il Pd è l’unica alternativa se non si rivede la promessa di togliere la seconda rata dell’Imu. L’aumento del-l’aliquota dal 21 al 22 per cento prevista per il primo ottobre vale 1 miliardo di euro. Ma soltanto per il 2013, poi il conto sale a 4 miliardi all’anno dal 2014 in avanti (stesso discorso per l’Imu: oltre a trovare i 2,4 miliardi per la seconda rata 2013 ne servono 4 miliardi annui dal 2014). La questione è stata affrontata soprattutto da una prospettiva di finanza pubblica, cioè di gettito. E poco dal lato dell’impatto sull’economia reale: secondo i dati di Confcommercio, l’aumento dell’Iva penalizzerebbe soprattutto il 20 per cento di famiglie più povere. Per loro la “pressione Iva”, cioè il rapporto tra Iva pagata e reddito, andrebbe al 10,5 per cento, mentre per il 20 per cento delle famiglie più ricche si fermerebbe al 7,5. Oltre che iniquo, dice Confcommercio, l’aumento dei prezzi farebbe scendere i consumi e dunque il gettito. La Commissione europea invece apprezza la tassazione dei consumi perché non distorce il mercato, è uguale per tutte le imprese e non crea favoritismi o penalità, a differenza, per esempio, delle accise sulla benzina, e finisce per incentivare l’export. Ma è la filosofia che conta: questo governo ha prima avuto come priorità i proprietari immobiliari, sgravandoli dall’Imu prima casa. Poi si ripromette di far pagare il costo del regalo agli inquilini (tramite service tax) che, si suppone, sono meno abbienti di quelli a cui pagano l’affitto. E adesso lascia salire l’Iva che, pur trattandosi dell’aliquota più alta (sono quindi al riparo dai rincari i beni di prima necessità), colpisce in modo diseguale. Come l’inflazione è un’imposta regressiva, cioè fa soffrire i poveri più dei ricchi. Come “clausola di salvaguardia”, cioè come interventi automatici in caso di fallimento di altre politiche, continua a introdurre aumenti delle accise e degli acconti Irpef, Ires e Irap. Cioè aumenti di tasse su chi già le paga, e anche queste regressive nell’impatto. E adesso Letta si è dato come priorità un intervento sul cuneo fiscale, cioè un taglio del peso del fisco sui lavoratori dipendenti. Bella idea, ma in una crisi in cui ci sono 6 milioni di italiani in cerca di lavoro i dipendenti non quelli più in difficoltà. Sembra, insomma, che ci sia una linea precisa nella politica del governo Letta: la ripresa si cavalca dando più soldi alla ex classe media, e pazienza per le vittime della crisi e i disoccupati. Legittimo, ma forse Letta e i suoi dovrebbero esplicitarla invece di presentare tutte le scelte di politica economica come frutto del determinismo storico o delle ossessioni di Silvio Berlusconi.

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