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di Giuseppe Leuzzi. Avviene a Camilleri, nato a Porto Empedocle in una famiglia che usava l’italiano frammisto al dialetto, da sessant’anni lontano dalla Sicilia, con moglie e figlie romane, a volte senza contatti con l’isola per un anno o più, di non poter esprimere un concetto o un senso se non in siciliano, nel “suo” siciliano– che è ben diverso da quello di Catania etc. Recependo però con fastidio l’etichetta di “scrittore siciliano”. È la cosa più notevole della conversazione, i ricordi e le tecniche scrittorie di Camilleri – non diverse dalle spieghe anteriori.
È un libro d’autore. Di autori. Tutto sull’amarcord. Ci sono Calvino, Benvenuto Terracini e Wittgenstein, ma di più i ricordi, cioè il fascismo. Ce è sempre nostalgia, .sotto l’avversione. Di qualche squarcio interessante ci lasciano col desiderio. De Mauro, giovane accademico a Palermo, ricorda che “quando la discussione si accendeva – e quando c’era Sciascia capitava spesso”, si slittava sul dialetto. Sciascia era polemico? No, parlava poco. Sciascia non era allineato al Pci? Più probabile. Ancora De Mauro, accademico avventizio a Palermo, e con lui il giovane Luigi Spaventa, fine anni 1960, non riuscivano a spiegare agli amici a
Roma che la mafia “esiste”, a persone “accreditate della migliore cultura italiana”: non capivano, ne ridevano.
Ma c’è Pirandello, scrittore in dialetto, traduttore anche dal greco all’agrigentino –che il dialetto, stabilì, è “la cosa stessa” (non è vero, ma rende l’idea). C’è la teoria delle emozioni. C’è quella delle parentele – Camilleri: tra lingua e dialetti è come tra l’albero e le fronde, dalle quali trae la linfa. E c’è una voglia di dialetto, forte . Fortissima: Camilleri e De Mauro ne discutono per perdonarsela, per esorcizzarla. E questo è Strapese, Maccari e Malaparte – che ertano anche loro fascismo. Anzi, è leghismo –eh sì. Nella forma alta, naturalmente, De Mauro è fulminato da Meneghello,“Libera nos a malo”. È un’introflessione che è una forma di retroflessione.
I dialetti, dunque. Che dirne, che i due ottantenni ingordi non si dicono e non ci dicono? L’emigrato che resta incistato nel dialetto dei suoi anni, di quando è partito, mentre nella comunità di origine la lingua (parole, significati, pronuncia) è mutata, questa è la chiave: la lingua, dialetto, compreso,
vive. Nel suo terreno di cultura, naturalmente. L’emigrato invece la mantiene ben conservata ma morta – folklorica – mentre fuori casa si trapianta in terreno ostile o estraneo.
Lo stesso per le necessarie parentele. Camilleri ricorda, Benvenuto Terracini e la lingua “centripeta”, che si rinnova con gli apporti dalla periferia al centro. Il dialetto è una conformazione di una lingua – un adattamento, fonetico, glottologico, morfologico, la diversificazione della lingua stessa. Ma è anche un fatto di aspettative deluse. Un colpo al sentimento innato dell’immodificabilità della lingua. La delusione dell’emigrato di ritorno è l’esito delle aspettative, il loro rovesciamento. Ed è vissuta come un tradimento: l’emigrato di ritorno soffre l’innovazione come una sorta di tradimento dell’identità.
La lingua per natura, e dunque il dialetto, non isola: più spesso l’apporto dell’immigrato – invertendo la direzioni di marcia – è vissuto come un’innovazione, linguistica oltre che di costume, mentalità, e pratica (culinaria, religiosa). Le tante esperienze di drammaturgia italiana oltralpe, a partire dal Seicento, o anglo-americana in questo dopoguerra in Italia, o di canto, e perfino di scrittura, attestano la comunicabilità delle lingue.
Per restare in armonia con i discutanti, molto “siciliani”, si prenda
Pippo Pollina. Siciliano cento per cento, nemmeno emigrato, e sempre in palla su temi italiani, in lingua italiana, è stanziale nel mondo tedesco, vivendo stabilmente, da trenta dei suoi cinquant’anni, a
Zurigo. È un artista “germanico”, popolare lungo l’asse Svizzera, Germania, Svezia, che canta in italiano. Il concerto che ha dato all’Arena di
Verona il 12 agosto, per i trent’anni della sua “germanizzazione” – uno dei suoi rari concerti in Italia, anticipato a gennaio da una presentazione al Parco della musica romano – è stato onorato soprattutto da un pubblico tedesco. È vero che era cantato per metà in tedesco, “Süden” – il disco-spettacolo è costituito da sedici canzoni, che si susseguono una in italiano e una in tedesco. La lingua è familiare, tribale, comunitaria (politica, religiosa, settaria), nazionale, cosmopolita.
Andrea Camilleri-Tullio De Mauro,
La lingua batte dove il dente duole, Laterza, pp. 126 € 14
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