L’ILVA di Taranto, ex Italsider, venne privatizzata nel 1995. La più grande acciaieria d’Europa fu acquistata dalla famiglia Riva, casualmente imparentata con Lamberto Dini, casualmente Presidente del Consiglio ancora in quel fatidico anno. Il passaggio dal pubblico al privato, com’era in voga in quel periodo storico di dismissioni statali a go-go (sempre con la scusa del debito pubblico da ripianare e del liberismo da introiettare, dopo un’epoca quarantennale di invasività della mano pubblica negli affari privati), avvenne molto al di sotto del valore reale degli impianti tarantini, tanto che in questo vortice di fortunate casualità uno finisce col credere che anche il caso ci vede benissimo, aiutando immancabilmente gli audaci genealogicamente fortunati o i coraggiosi (capitani) politicamente ammanicati che si trovano nel posto giusto al momento giusto, mentre al resto dell’umanità tocca di prendersela, quando le capita, cioè quasi sempre, nel posto ingiusto.
L’ILVA è stata la fabbrica nella quale mio padre ha lavorato per trent’anni, quella grazie alla quale potevo fare, come figlio di dipendente, le vacanze gratis in qualche colonia estiva di proprietà dell’azienda, scegliendo tra località di alta montagna e luoghi di mare. L’Ilva è stata anche la mia Befana, quella che si ricordava di me ogni 6 gennaio, regalandomi robot ad altezza di bambino e lasciandomi credere che il mio papà lavorasse nel paese dei balocchi dove i giocattoli crescevano sulle ciminiere.
La prima volta che vidi lo stabilimento di persona restai a bocca aperta, la fabbrica-città era qualcosa di inimmaginabile per un bambino, così come gli spazi interni con la gente che si spostava da un settore all’altro con qualsiasi mezzo di locomozione, dai motocicli alle auto, e le merci caricate direttamente su treni che la attraversavano in lungo e in largo. Non ricordo precisamente quante persone lavorassero all’Italsider negli anni ’80, tuttavia credo fossero almeno quattro o cinque volte di più rispetto ad oggi. Oltre alla mastodonticità di fumaioli, degli uffici, dei capannoni, delle gru e delle macchine, mi colpì soprattutto il cielo plumbeo su tutta la zona e le case coperte da una fuliggine rossastra che rendeva il paesaggio tetro e minaccioso. Sembrava tutto arrugginito, compreso quello che non avrebbe dovuto arrugginirsi come gli uomini.
Ci sono ripassato quest’inverno dall’Ilva e la situazione non è assolutamente paragonabile a quanto da me osservato circa venticinque anni fa. Gli impianti sono stati ridimensionati, molti altiforni dismessi e, almeno ad occhio, i fumi hanno certamente tutt’altra consistenza e colorazione, per effetto dei depuratori e della ridotta produzione.
Cinque lustri fa a nessuno sarebbe venuto in mente di spegnere le fornaci e di chiudere i reparti, mandando a casa gli operai, nonostante l’inquinamento fosse evidente e sicuramente meno tollerabile di adesso, Primum laborare deinde rompere le scatole, benché sindacati e maestranze non abbiano mai smesso di chiedere, com’era ed è loro diritto, ambienti di lavoro più salubri e sicuri.
Ma da quando l’ambientalismo è diventato un’ideologia oltranzista e irriducibile nei suoi dogmi indimostrabili, si pretende che le industrie diventino asettiche come camere operatorie e gli esseri umani così biologicamente puri da cacare saponette. La Puglia, con l’elezione del Governatore più ecologicamente puritano che ci sia, si è messa all’avanguardia di questo settarismo cieco e deleterio che danneggia la sua economia già debilitata dalla crisi . La Regione, per inseguire i tarli del suo Presidente e di un partito, Sinistra, ecologia e libertà, che porta nel nome il feticcio ambientalista senza evidenze scientifiche, ha fissato limiti di emissioni di diossina da foresta amazzonica. In sostanza, Vendola e compari si sono messi in testa di fare del tavoliere e del rimanente una tabula rasa industriale, con i pugliesi a mangiare radici, gli uccelletti sugli alberi e gli uccellacci a governare e smobilitare. Eppure secondo l’Arpa, le emissioni di diossina dell’ILVA nel 2011 sono state contenute entro margini non dannosi per la salute umana, tanto che l’esposizione alla stessa, dicono gli esperti, al di sotto di certe soglie, riduce persino l’insorgenza di alcuni tumori. Come scrive il chimico Franco Battaglia su Il Giornale, questa serrata voluta dalla magistratura è ingiustificata ed altrettanto inutile si rivelerà l’annunciata bonifica dei siti voluta dal Governo dei sedicenti tecnici incompetenti su tutto. Se effettivamente l’inquinamento da diossina non è tale da richiedere alcuna opera di bonifica è chiaro che questo intervento superfluo servirà solo ad arricchire la potente lobby dei bonificatori, uno dei tanti bracci operativi del “racket ambientale” che succhia risorse dallo Stato per riportare l’Italia nelle caverne. Sono già stati stanziati 336 milioni di euro che la cricca ecologista, verde di portafoglio e rossa di vergogna e d’identità, valuta non sufficienti. Costoro chiedono soldi e sovvenzionamenti per farci ripiombare ai tempi della pietra, meglio allora tenersi quelli dell’acciaio nonostante non siano il massimo del progresso e della vita.