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“Cosa voleva dire la zia?”, chiesi più tardi alla mamma. “Per il 1 novembre dovremo far visita a un altro parente che ci ha lasciati.” Ecco il giro lungo, pensai tra me. La cosa però non mi turbò. Come ogni anno ero impaziente di curiosare tra le bancherelle che sarebbero state allestite lungo il viale di casa mia. Già pregustavo tutte quelle bontà che mi facevano luccicare gli occhi, come il pan dei morti, dolci tipici del periodo ricoperti di tanto zucchero. Mia madre me ne comprava sempre un sacchetto insieme a una buona scorta di caramelle e di torrone alle mandorle.
Quella mattina mi recai al cimitero con la famiglia al completo: papà, mamma e sorella maggiore. All'ingresso c’erano altri parenti, zii e cugini, che ci aspettavano con fiori, lumini e qualche fazzoletto pronto per l’uso. Nel cielo nuvole scure si addensavano massicce preparando l’inizio della prima pioggia novembrina.
Cominciammo il giro. La tomba della nonna non era in buono stato: la foto spostata all'angolo della lapide, rimasugli di foglie ingiallite sparse qua e là e il vasetto delle orchidee con poca acqua. Ma le donne della “truppa” non si persero d’animo e passarono subito all'azione. C’era chi puliva con uno straccetto ogni parte del sepolcro, chi si recava al lavatoio per il ricambio dell’acqua, chi si occupava dei nuovi fiori da sistemare e chi invece accomodava gli oggetti nella giusta posizione.
“Dovrò parlare con il personale del cimitero”, si lamentò papà. “Avevo raccomandato di dare ogni tanto un’occhiata alla tomba. Vedo che non mi hanno ascoltato.” “Tu prova ad aumentare la mancia”, propose mia madre. “Forse non sono contenti di quello che gli diamo”.
Andammo da Cesira.
Era una bambina morta vent’anni prima per un male incurabile. Si diceva che facesse miracoli e che le sue spoglie fossero, anche dopo l’ultima esumazione, ancora intatte. Aveva al suo seguito un gran numero di visitatori, a lei devoti per le guarigioni più difficili e insperate.
La tomba era quasi tutta ricoperta di fiori che a malapena si notava la foto, piuttosto sbiadita, di una fanciulla dal volto sorridente con tanti riccioli biondi. I miei si allontanarono per far visita a zio Luciano, l’ultimo della lista dei “più”, ed io rimasi solo con mia sorella. Tirai dalla tasca il sacchetto dei pan dei morti e depositai un biscotto sulla tomba di Cesira. Mia sorella annuì con un sorriso accarezzandomi il capo.
Ci avviammo all'uscita del cimitero dove trovammo i miei e gli altri parenti che si scambiavano gli ultimi saluti. Ad un tratto sbucò da quella piccola folla una bambina bellissima, simile a Cesira, che si avvicinò a me schioccandomi un bacio sulla guancia e sussurrandomi all'orecchio: “Grazie del dolcetto”. Chiusi istintivamente gli occhi ma quando li riaprii la bambina non c’era più. Mi girai verso l’ingresso del cimitero e una luce oltre il viale dei cipressi apparve come un arcobaleno dopo la tempesta.
“Riccardo, sbrigati a salire!”, gridò mio padre mentre apriva lo sportello della macchina. Mi accomodai sul sedile posteriore con mia sorella che mi aiutava a sistemare il berretto e la sciarpa. Sui vetri appannati del finestrino disegnai di nuovo il mio sole sorridente, illuminato di quella “luce oltre” che mi accompagnò fino al ritorno a casa.
(“LA LUCE OLTRE”. Racconto breve di V. Borrelli)http://feeds.feedburner.com/VittorianoBorrelliLeParoleDelMioTempo
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