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La madre di Cecilia di Alessandro Manzoni: per la festa della mamma è a lei che va il pensiero

Creato il 10 maggio 2015 da Alessiamocci

Tante sono le madri celebrate dalla letteratura, ciascuna a modo proprio esempio di fedeltà e di coraggio. Dovendo però scandagliare i miei ricordi di bambina e di studentessa, il pensiero va ad una delle più belle pagine de “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, dove le frasi diventano lirica.

Quell’episodio struggente in cui l’autore descrive la madre di Cecilia, la bimba di nove anni, vittima della peste. Tale storia ha infiammato l’immaginario collettivo ed ispirato numerosi artisti del Novecento che ne hanno tratto delle rappresentazioni pittoriche. Fra tutte, la litografia di Renato Guttuso, divenuta vera e propria fonte iconografica.

La madre di Cecilia compare nel capitolo XXXIV, durante il viaggio di Renzo a Milano, sconvolta dalla peste del 1630. Il giovane sta cercando Lucia, e pensa di raggiungere la casa di don Ferrante e donna Prassede dove spera si trovi la fanciulla. In seguito apprenderà, invece, che ella sia in un lazzareto. Renzo è da poco entrato in città, quando vede una giovane donna uscire da una casa e dirigersi verso il carro dei monatti, portando in braccio il cadavere di una bambina. Il “monatto” era un addetto pubblico che nei periodi di epidemie pestilenziali era incaricato dai comuni di trasportare nei lazzaretti i malati o i cadaveri.

Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunciava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio”.

La donna ha versato molte lacrime e su di sé porta già i segni della peste. La bimba che tiene in braccio è ben pettinata e indossa un vestitino bianco, come se fosse agghindata per una festa. La madre la tiene col capo eretto e appoggiata a sé come fosse ancora viva, ma un braccio, che cade abbandonato, tradisce il fatto che invece la bambina sia ormai spirata.

Un “turpe monatto” si avvicina e reclama il piccolo corpo, seppure con un’esitazione e una forma di rispetto inusuale per un simile figuro; ma la donna si ritrae e chiede all’uomo di poter adagiare la bambina sul carro con le proprie mani.

“«No!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo dintorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così»”.

Il monatto prende il denaro che la donna gli porge e fa posto sul carro. La madre depone il piccolo corpo della figlia.

La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come su un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: «addio, Cecilia! Riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restare sempre insieme»”.

La donna si rivolge ancora al monatto e gli ricorda che a sera dovrà ripassare da quella casa a raccogliere lei stessa e l’altra sua figlia. Quindi rientra in casa e, poco dopo, si affaccia da una finestra tenendo in braccio l’altra sua bimba, più piccola, “viva, ma coi segni della morte in volto”.

L’episodio è ispirato a un fatto realmente accaduto e descritto dal cardinal Borromeo nel “De Pestilentia” (VIII, De miserandis casibus), lo scritto sulla peste del 1630 in cui l’aneddoto è descritto in maniera più generale: “Essendole morta sotto gli occhi la bambina di nove anni, la madre non volle che le fosse toccata dai monatti”.

Manzoni “personalizza” l’accaduto, creando una delle pagine più commoventi della letteratura italiana di tutti i tempi, dando il nome di Cecilia alla bambina.

Questa madre, assurta a simbolo di dignità e dolore composto, conclude la visione della sua sofferenza.

Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato”.

Tutto questo accadeva poco distante dall’odierna via Montenapoleone. Strano che per la festa della mamma, quest’anno, io abbia pensato proprio al dramma di questa famiglia. E soprattutto a lei: alla madre di Cecilia.

Written by Cristina Biolcati


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