Un’anteprima di pochi minuti. Un’assaggio del più ostico, denso e controverso film apparso nelle ultime stagioni.
Da stasera, venerdì 30 Marzo 2012 nelle sale italiane: Romanzo di una strage, firmato da Marco Tullio Giordana, regista da sempre impegnato a decifrare la realtà, passata e presente; suo La meglio gioventù, suo Pasolini, un delitto italiano, suo I cento passi.
L’aria è spessa e pesante. La luce, fioca di nebbia e fumo. Padova, Prato della Valle. I vicoli, un uomo elegante, felpato. Un motore per lavapiatti, un ordine al ferramenta, che esegue perplesso. Si cambia scena: una protesta di piazza, la violenza, un giornalista malmenato, un poliziotto massacrato. I protagonisti scorrono sullo schermo in una giustapposizione di sequenze incalzanti: il commissario Calabresi da poco trasferitosi a Milano. Poi tappa a Roma: un Aldo Moro disilluso e velato da atroci premonizioni. Ritorno al nord: interni lividi, dialoghi serrati.
Eccellente è il cast, non solo per i ruoli principali – Piefrancesco Favino nei panni di Giuseppe Pinelli e Valerio Mastandrea in quelli di Luigi Calabresi, entrambi superlativi – ma anche i comprimari brillano, sia quelli già noti (Lo Cascio, Gifuni, Cescon, Tirabassi) sia talenti insospettabili da futuri numeri uno; qualche nome: Denis Fasolo, Andreapietro Anselmi, Giorgio Marchese, Marcello Prayer.
Subito disvelati allo spettatore i cardini della vicenda, subito tracciati i binari nella mente di chi la storia l’ha vissuta, vista o cercata nelle pagine scritte, strappate e riscritte della strage che segnò l’inizio della fine del patto con lo Stato. Una Repubblica contaminata e marcia dentro dopo venti anni appena sulla carta.
Alle 16,37 del 12 dicembre 1969 una potente bomba alla gelignite viene fatta esplodere nel salone affollato della sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano.Il bilancio delle vittime è di 17 morti, di cui uno deceduto successivamente, e 85 feriti. Nell’orrore come sempre gli innocenti. Dopo il fuoco della strage, le accuse sbagliate, e altre morti, ancora sbagliate.
Pista anarchica e pista nera. La storia processuale può cominciare. Le indagini partono a senso unico nell’estrema sinistra per le bombe piazzate fra Roma e Milano nei mesi precedenti la strage di piazza Fontana. Si accerterà poi che le avevano fatte esplodere i fascisti di Ordine Nuovo, che godevano di complicità negli apparati di polizia.
Tra ipotesi che cadono e altre che si fanno largo, sarà un susseguirsi di nuove inchieste, nuovi rinvii a giudizio, nuovi dibattimenti, nuove sentenze. Persone sempre diverse prenderanno il volto degli imputati.
Mai, nella storia del nostro Paese riferita a reati politici, la giustizia si troverà di fronte ad una rete così fitta di complicità, deviazioni e reticenze.
Di questa strategia dell’occultamento fanno parte: la frammentazione dei processi, il lasciar trascorrere il tempo, il ricorso agli omissis. E dunque la perdita dell’innocenza, della fiducia. Del resto come avere fiducia in uno Stato quando la Questura da cui usciva senza vita Pinelli aveva per capo l’ex sorvegliante dei confinati politici antifascisti a Ventotene?
Da quei giorni, inchieste difficili, controverse; processi interrotti, ripetuti, spostati, dall’esito incerto e contraddittorio. Indagini contrastate con ogni mezzo, spiragli subito chiusi e cancellati. Tutto questo ha mostrato una sola costante: il pervicace e deliberato occultamento della verità attraverso silenzi e menzogne.
Lo stragismo è forse riconducibile al solo delirio di una banda di criminali o scaturisce da radici ben piantate? Un qualcosa di profondo, innominabile, grave ed eversivo. Un seme piantato nel cuore delle stesse istituzioni? La cosidetta strategia della tensione: teorema o verità? Ho sentito raccontare che si vedevano manifesti con scritto “La strage è di Stato”.
E’ sempre stato pericoloso trasformare l’aula giudiziaria nella sede unica e sacrale della verità, specie quando questa vi giunge sfigurata da incoffessabili interferenze; ma ancora peggio è dare ascolto a quella ben calcolata strategia dell’ingiustizia, che consegnando tutto all’impossibilità di fare luce sui fatti, punta impassibile alla sfiducia e alla resa della gente. Questo è il messaggio principale del film. Indignarsi ad esempio per le assoluzioni piene o parziali, non restituisce nulla a chi non ha avuto giustizia. Giustizia che in uno stato di diritto deve poter rimanere credibile anche quando assolve. Il dramma è un altro: sta nel nascondere prima e altrove colpe e colpevoli.
Oggi finalmente si racconta quel pezzo marcito di Stato che ha distorto, coperto e messo a tacere la responsabilità dei suoi delitti. Si denuncia la volontà di reprimere gli orientamenti progressisti attraverso manovre autoritarie di caratura militare. Un ceppo di terrore da cui attingere per affossare un fisiologico processo democratico al quale uomini semplici, intellettuali e statisti tentavano di dar vita. E per il quale trovarono la morte. Le vittime civili. Le famiglie. E gli olocausti programmati come Pinelli, Calabresi, Aldo Moro e Pier Paolo Pasolini. Quest’ultimo, un anno prima dell’agguato in cui fu brutalmente trucidato, scriveva sulle pagine del Corriere un’indimenticabile pagina di denuncia divenuta Storia, di cui forse, oggi, cominciamo ad avere le prove.
Da il Corriere della Sera, 14 novembre 1974
Cos’è questo golpe? Io so
di Pier Paolo Pasolini
Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”. Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome[…]
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi[…]Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi. A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Di seguito un prezioso stralcio di un’intervista ad Indro Montanelli:
Articolo di Lilith Fiorillo