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La mafia onesta

Creato il 05 marzo 2014 da Abattoir

di Pigi Arisco

Roberto Salvini era un giovane di mezza età – come era solito definirsi – con una vita normale. E per normale intendiamo la resistenza costante ai problemi quotidiani: l’affitto da pagare, le bollette, il dramma dell’assicurazione ogni sei mesi e lo stipendio – quando c’è – che non basta mai.
Si era diplomato al liceo classico nonostante avesse una buona propensione per l’aritmetica ed una passione per i computer che lo aveva reso un punto di riferimento nella comunità globale di internet. Deciso a sfruttare la sua passione per i numeri, partecipò ad un corso per amministratore di condominio, nella speranza di trovare un impiego.
Era un ragazzo sveglio e venne assunto dall’azienda MoneyManage che, a dispetto del nome internazionale, era composta da una ventina di ragionieri ed un parco clienti tutti rigorosamente del sud Italia.
Roberto era molto bravo nel suo lavoro, aveva salvato decine di imprese ormai lanciate a tutta velocità verso il fallimento, gli piaceva aiutare gli altri, lo faceva volentieri. Ma aveva una regola ferrea, alle 18, cascasse il mondo, smetteva di lavorare. Il motivo di una così rigida regola era dovuto al fatto che non intendeva rinunciare all’aperitivo con il suo vecchio professore di storia Aurelio Artuzzi.
Con Aurelio amava parlare di tutto, egli aveva il pregio di fornire a Roberto sempre un punto di vista originale. Riusciva ad arrivare alle verità più plausibili attraverso percorsi logici innovativi. Applicava un metodo che amava definire “primordiale”. Parlava di controllo del territorio, rapporti di forza, avvicendamento alla leadership e della necessità dell’esistenza dei più deboli per far sì che i forti si affermassero. Applicava questi concetti a qualsiasi argomento, che si trattasse di attualità, politica, mafia, donne o ippica.

Alla morte di Aurelio,  non avendo più alcun motivo per applicare la “regola delle 18″, si gettò anima e corpo sul lavoro, con grande soddisfazione di tutti alla MoneyManage.
Un giorno a Roberto fu assegnato un grosso affare, la gestione di un ipermercato, proprio nel suo paese. Non lo spaventavano i grossi numeri e cominciò a gestire milioni di euro senza problemi. Dopo un mesetto si accorse che a grandi fatturati corrispondevano grandi “regalie”. Si rese conto che quell’ipermercato era un enorme operazione di riciclaggio. Gli investitori non si sapeva bene chi fossero, i fornitori erano insindacabili nonostante facessero prezzi assurdi e fornissero materiale scadente, le assunzioni erano fatte senza alcun criterio se non quello di una lista di nomi scritti a matita su foglietti volanti, tutto era stato deciso prima e doveva seguire un percorso rigido.
Si rese conto che quell’ipermercato era un bel passo in avanti della criminalità organizzata nel suo territorio. Stavano investendo denaro, tantissimo denaro, stavano creando occupazione. Offrivano sviluppo e progresso, in modo malsano ovviamente, con un criterio tipicamente clientelare e mafioso. Stavano invadendo il suo territorio e la gente del luogo pensava fosse una grande occasione di sviluppo economico.

Cominciò a ricordare le parole di Aurelio e ad applicare il suo punto di vista “primordiale”. Roberto capì che doveva reagire. Ma come? La denuncia alla magistratura o quella politica erano fuori discussione, la storia del sud Italia era piena di morti ammazzati che avevano seguito una delle due strade. Decise dunque di applicare il metodo “primordiale” alla cosa che sapeva fare meglio, la gestione dei soldi. Escogitò un piano che prevedeva la rinuncia ad alcuni principi morali, del resto tale rinuncia era indiscutibilmente un metodo vincente.
Si diede solo una regola ferrea, quella di non ricorrere mai alla violenza o alle minacce, poteva benissimo sostituire il danno fisico con quello economico.
Si licenziò, vendette la casa che la nonna gli aveva lasciato e creò una propria azienda di consulenza amministrativa. Assunse i migliori colleghi conosciuti durante la sua carriera, a questi si aggiunsero alcuni hacker idealisti e sociopatici capaci di entrare dentro qualsiasi rete informatica. Creò una specie di setta, la chiamarono “la mafia onesta”. Il loro motto era “Questa è la mia terra, e la tengo pulita!”.
Il piano era tanto semplice quanto efficace. Infiltrare quanti più consulenti possibili dentro l’ipermercato, per conoscerne nel dettaglio tutti i movimenti ed influenzarne le scelte. Al tempo stesso dovevano aiutare tanti piccoli commercianti ed imprenditori ad attuare strategie commerciali che gli consentissero di fronteggiare l’avanzata dell’ipermercato. Creare insomma un fronte di gente onesta che, come in una loggia massonica, si soccorreva nei momenti del bisogno, facendo affari e mascherando gli aiuti economici con falsi lavori ed altrettante false fatture.
Il bello era che i proprietari non ne avrebbero mai saputo nulla. La squadra di Roberto era composta da maghi dei bilanci capaci di creare una nuvola infinita di voci di entrata e di spesa che avrebbe confuso chiunque. Così tutti i titolari, mafiosi e non, finivano per guardare soltanto la cifra a fondo pagina che inesorabilmente recava un bel segno “+”.
In meno di un anno c’erano uomini di Roberto sia nella pubblica amministrazione che in ogni attività commerciale. Se i commercianti onesti pagavano il pizzo, i soldi finivano nelle casse dell’ipermercato dove c’erano uomini di Roberto che provvedevano immediatamente a richiedere interventi straordinari o effettuavano investimenti fantasma che attraverso un giro di micro-sub-appalti facevano tornare i soldi da dove erano partiti. Oltretutto le aziende mafiose ottenevano enormi contributi pubblici grazie alle connivenze con le amministrazioni locali, una fetta di questo denaro finiva quasi per magia nelle casse delle aziende oneste.
Lavorare come amministratori dentro l’ipermercato e le aziende mafiose dei fornitori era molto rischioso, ma gli uomini di Roberto riuscivano sempre a far ricadere le responsabilità delle perdite sui fornitori mafiosi o sul personale che erano stati costretti ad assumere.
Inoltre gli hacker avevano creato una rete di intercettazioni audio-video che consentivano alla “mafia onesta” di conoscere tutto quello che i boss avevano intenzione di fare. Avevano anche tracciato una mappa di tutti i conti correnti legati all’ipermercato e tutte le fonti oscure da dove arrivavano vagonate di denaro contante.
Grazie al metodo di Roberto le piccole aziende avevano enormi profitti, ma non tutto il denaro veniva consegnato come utile ai proprietari, una buona parte finiva nelle casse della “mafia onesta”; tolti i compensi per la squadra e le spese di gestione, il resto veniva accantonato in un conto segreto per finanziare l’offensiva finale. La squadra aveva deciso di attuare un piano che avrebbe in un colpo solo distrutto l’ipermercato e riconsegnato il paese alla gente onesta. Avrebbero inoltre consegnato alla magistratura un dossier completo delle attività economiche dell’ipermercato.
Ovviamente sarebbe stato l’atto finale, dopo quel colpo tutti loro sarebbero dovuti sparire per sempre, ognuno con un capitale adeguato da investire per vivere il resto della propria vita dall’altra parte del mondo.

Il giorno arrivò, ogni centesimo guadagnato dall’ipermercato in un mese sparì di colpo. Tutte le aziende oneste che avevano crediti per lavori o forniture all’ipermercato furono pagate nonostante le fatture recassero somme a sei zeri. Il 100% degli appalti pubblici venne affidato alle aziende oneste con contratti vincolati per vent’anni.
Si scoprì che i miliardi investiti dall’ipermercato in fondi, obbligazioni ed azioni varie non erano mai stati investiti e gli utili che ogni tanto figuravano da questi investimenti erano soltanto cifre, numeri senza riscontro, in bilanci completamente fasulli. La magistratura ricevette un DVD con tutte le schede dettagliatissime degli esattori del pizzo, dei loro conti in banca, delle loro proprietà, ed una mappa del giro che ogni banconota faceva per arrivare alle casse dell’ipermercato. Si scoprì che le ville dei boss mafiosi erano intestate a società con sede alle isole Cayman, ma che tali società avevano generosamente donato gli immobili alla FAO, all’Unicef ed a Medici senza frontiere.
Dopo una settimana tutti i mafiosi ed i loro galoppini erano stati arrestati. Soltanto pochi fortunati che quel fatidico giorno si trovavano all’estero si salvarono ed ovviamente si diedero direttamente alla latitanza.
Le ditte fornitrici dell’ipermercato fallirono, ma furono subito rilevate dalle aziende oneste che si erano ritrovate una inaspettata, enorme, disponibilità economica. In un solo giorno i rapporti di forza si erano rovesciati, la mafia onesta aveva sbaragliato l’ipermercato mafioso. La gente aveva avuto comunque la sua dose di progresso e benessere, ma la terra che calpestavano tutti i giorni era ancora loro! Non dovevano mostrarsi riverenti nei confronti di nessuno. Tutto era di nuovo pulito.
Pensavano inoltre di aver fatto tutto da soli e che se Roberto e la sua società erano spariti, era perché erano conniventi con i mafiosi.
Ironia della sorte. A Roberto e la sua squadra di amministratori ed hacker informatici non era toccata la gloria ma l’etichetta di mafiosi.
A Roberto però non interessava, dopo un giro in diverse banche nelle capitali europee per riunificare in un solo conto corrente tutti i suoi averi, dopo aver cambiato identità ed ottenuto uno splendido passaporto finlandese, si era diretto verso quel terreno di cento ettari che aveva comprato in America Latina.
Del suo passato conservava solo il computer portatile e la foto incorniciata di Aurelio.


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