"La mafia uccide solo d'estate" di Pierfrancesco Diliberto (in arte PIF) può essere paragonato a La vita è bella di Roberto Benigni per la capacità di trattare un tema come “cosa nostra” (ne La vita è bella la shoah) con il sorriso, senza cadere, però, nella banalità e nella offesa alle sue vittime, mai dimentichi delle tragedie da essa provocate.
Arturo, attratto dal figura di Giulio Andreotti, appare da ragazzino e, poi, da ragazzo, un po’ imbranato, ma in realtà non lo è affatto, avendo ben compreso prima degli altri che cosa sia la mafia. Lo ha capito anche prima di Flora (Cristina Capotondi), di cui è innamorato sin dai banchi delle elementari.
La narrazione ripercorre tutte le stragi, le uccisioni e i massacri compiuti dagli uomini di “cosa nostra”, da Pio La Torre, Boris Giuliano e Piersanti Mattarella, per passare per gli assassini del generale Dalla Chiesa e del giudice Rocco Chinnici, e giungere alla strage di Capaci e alla eliminazione di Paolo Borsellino e della sua scorta.
I volti noti degli eroi della magistratura, della polizia edei carabinieri, che hanno fatto la storia della lotta alla criminalità organizzata, costellano il racconto del film, unitamente alla carrellata delle facce derise dei boss e dei killer sanguinari della mafia, senza che questo possa in alcun modo diminuire il disprezzo che l’Autore (insieme agli spettatori) nutre per costoro.
Il tutto è punteggiato da spezzoni di immagini di repertorioche ricordano gli accadimenti di sangue di quegli anni, immagini che si fondono a scene dell’opera che sono costruite con una tecnica che fanno sembrare pur esse tratte da documentari dell’epoca.
Il finale è toccante: mentre Arturo (interpretato dallo stesso regista) e Flora – oramai sua moglie - parlano al figlio degli uomini e delle donne che hanno perso la vita per lo Stato e per una Sicilia non più oppressa, lo schermo si riempie, piano piano, con inesorabile lentezza e forza, degli stralci di giornale che hanno fatto conoscere al mondo le gesta dei “cavalieri” del XX secolo.
Lo spettatore non si alzerà subito dalla poltroncina, ma aspetterà che l’ultimo titolo di coda si dissolva dinanzi gli occhi.
Solo allora sarà costretto ad andarsene.
Fabrizio Giulimondi