Scrivere una recensione quando un film non piace è arduo, scriverla quando invece si è soddisfatti e appagati di ciò che si è visto potrebbe sembrare semplice, ma, a volte, si casca nella ridondanza di complimenti e ossequi che riescono sempre un po’ retorici. Scrivere una recensione quando la pellicola parla strettamente della tua vita, quando senti tra la celluloide la stessa essenza che fa parte delle tue fibre, diventa un’impresa quasi impossibile. Vi chiederete perché blatero tutto ciò; perché è esattamente quello che mi trovo a fare, recensire un’opera che potrebbe benissimo essere la mia. Il titolo è La mafia uccide solo d’estate e il regista quel Pierfrancesco Diliberto meglio noto con il nome d’arte di Pif. Dirvi che questo lungometraggio è un capolavoro, che sa commuovere e far ridere allo stesso tempo, che riesce a essere arguto nella sua ingenuità, impegnato, sarcastico, brutale, spiazzante, romantico, geniale, ma soprattutto vero, sarebbe inutile perché questa è la millesima recensione che viene pubblicata sul film e tutti già hanno usato gli stessi termini per descriverlo. Vi parlerò allora della mia esperienza, di cosa Pif mi ha suscitato durante la visione della sua opera prima. Inizio dicendovi che io sono siciliana, nata e cresciuta a Catania, e che per questo motivo nutro una forte antipatia per tutto ciò che in televisione o al cinema usa la “mafia” per accalappiare pubblico, ragione per cui all’inizio non avevo voglia di andare a vedere la pellicola di Pif “quello de Le Iene“, il titolo non mi catturava.
Poi, senza aver letto nulla e senza aver mai visto il trailer, una sera mi sono lasciata convincere e quasi di malavoglia sono andata al cinema. Lì, dentro una piccola sala stracolma di persone, fin dal primo fotogramma è scattata l’empatia: Pif, siciliano come me (anche se palermitano) descrive una Sicilia che vivo quotidianamente, una Sicilia dove la difficoltà nel parlare, che lui evidenzia sin da piccolo con il suo rifiuto nel dire quella prima parola tanto attesa, è insita geneticamente in noi. Il vivere celando a se stessi ciò che accade di terribile intorno è tipicamente siciliano, tanto che gli omicidi di mafia diventano solo morti per “probblemi di fimmini”. E, per questo, un bambino non ha paura per la mafia ma per le “fimmini” e, come Arturo, il protagonista del film, vive con terrore il suo innamoramento perché certo di morte prossima. Arturo, così come Pif e me, è cresciuto sentendo e leggendo la parola “mafia” ma senza sapere cosa significasse, ciò che si sa è che il suono di questo termine fa paura, ma, come spiega bene il padre di Arturo al figlio, è come un cane: se non gli dai fastidio non ti fa nulla. Il piccolo protagonista cresce dunque con falsi miti che sembrano rispondere alle sue mille domande, il più deleterio porta un nome pesante: Giulio Andreotti. Il bambino diventa un fan sfegatato del Presidente del Consiglio; è una venerazione la sua che lo porta perfino a vestirsi come lui a Carnevale, un’idolatria che più avanti riserverà spiacevoli rivelazioni.
Così Arturo, innamorato della sua compagna di classe Flora, entra in contatto con tanti uomini che in quegli anni segnarono la nostra storia; Rocco Chinnici giudice e vicino di casa di Flora con il quale il giovane protagonista condivide il segreto sulla sua infatuazione amorosa, il commissario di polizia Boris Giuliano che gli fa conoscere e assaggiare per la prima volta le iris, il generale Dalla Chiesa il quale concede un’intervista al piccolo Arturo, vincitore di un concorso giornalistico della sua scuola e, proprio durante questa intervista, il bambino riportando le parole del suo mito Andreotti chiede al generale se non avesse sbagliato regione dato che per il Presidente del Consiglio l’emergenza criminalità era in Campania e in Calabria ma non in Sicilia. Successivamente durante il funerale di Dalla Chiesa, Arturo, vedendo che tra gli illustri personaggi presenti manca proprio il suo Andreotti, capisce che probabilmente quella domanda non doveva farla perché la sua fonte non era del tutto attendibile. Il bambino nel frattempo cresce e diventa uomo: affascinato dal mestiere di giornalista, tenta questa strada anche se tortuosa e a tratti esilarante, ma il mondo intorno a lui non cambia, continuano gli omicidi, continua il silenzio delle persone, continua la paura, solo la Mafia si sviluppa, si nutre e si rigenera.
Arturo (Pif) rincontra Flora (Cristiana Capotondi), diventata assistente di Salvo Lima, e il giovane uomo si ritrova sempre innamorato e disposto a tutto per lei, anche a seguire come giornalista la campagna elettorale del politico palermitano. L’amore di Arturo verso Flora è il filo conduttore che lega i fatti reali narrati nella pellicola donandole la giusta leggerezza. Mentre ascoltavo le parole dette da Lima durante i suoi comizi, «la Sicilia ha bisogno dell’Europa e l’Europa ha bisogno della Sicilia», ho come avuto un fortissimo déjà vu, trovavo questi discorsi alquanto familiari. Passano gli anni e si arriva alle Stragi di Capaci e di via D’Amelio, si vedono i giudici Falcone e Borsellino impegnati nel loro lavoro, si vede Riina nel suo rifugio che impara a usare un telecomando e, giocando ironicamente sulla scarsa capacità intellettiva del boss mafioso, nel momento in cui pigia il pulsante appaiono sullo schermo le famose scene di repertorio della voragine apertasi sull’autostrada e la morte del giudice Falcone, di sua moglie e della scorta. Durante lo scorrere di quelle immagini, mi guardavo intorno nella sala e sentivo i mormorii del pubblico, vedevo le facce ancora oggi sconvolte e pensavo a quegli uomini, onesti lavoratori che portarono avanti una lotta impari, una lotta non soltanto contro Cosa Nostra ma anche contro un modus vivendi che partiva da vertici ben più potenti. Sentivo come sempre un conflitto dentro, provavo il disgusto per un mafioso, siciliano come me, che uccide senza ritegno, come fosse un gesto qualunque spezzare una vita, e poi avvertivo un senso di fierezza, di forza, per chi come Falcone, Borsellino, Chinnici, Giuliano, anche loro siciliani, ha combattuto e dato la vita per cercare di cambiare un paese immutabile.
Il film di Pif racconta una battaglia silenziosa, capita troppo tardi dai noi conterranei, che ha in ogni caso rivoluzionato, in parte, la nostra isola. Sono stati loro, questi immensi uomini, che hanno permesso al popolo siciliano di avere per vent’anni una vita più tranquilla, che hanno smosso le coscienze per cercare una ribellione contro quella serpe, che, seppur insita nel nostro terreno, non deve ancora continuare ad alimentarsi. Alla fine dopo le sequenze più toccanti che, come in un documentario, mostrano al pubblico ciò che realmente accadde ai funerali del giudice Falcone e della sua scorta, Arturo e Flora riescono a vivere il loro amore. La coppia ha un bambino e al piccolino insegnano la differenza tra il bene e il male, lo portano a vedere le lapidi di quegli eroi raccontandogli le loro gesta, gli spiegano cos’è la mafia rompendo quell’omertà che per anni ha circondato, come una coltre, la nostra vita, perché come dice Arturo-Pif: «quando sono diventato padre ho capito due cose: la prima che avrei dovuto difendere mio figlio dalla malvagità del mondo, la seconda che avrei dovuto insegnargli a distinguerla». Questo è il compito di un genitore soprattutto se abiti in Sicilia: aprire gli occhi e cominciare a combattere. Le luci si sono accese in sala e un applauso è partito spontaneamente, dirvi che avevo le lacrime agli occhi è scontato per un’opera che ha un forte senso civico e un pesantissimo livello emotivo che ineluttabilmente tocca l’animo di un siciliano e, spero, anche quello di un italiano.