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La Maga delle Spezie: Profumi dall’India

Creato il 15 maggio 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il maggio 15, 2012 | LETTERATURA | Autore: Vittoria Averni

La Maga delle Spezie: Profumi dall’IndiaChi di voi non si è mai fatto affascinare dai colori e dagli odori del lontano Oriente? In particolare dai nomi e dai profumi delle spezie dell’India? Credo un po’ tutti. Io per prima ho subito l’influenza del fascino dell’esotico nel mio ultimo acquisto in libreria: “La maga delle spezie” dell’autrice bengalese Chitra Banerjee Divakaruni, edito per la prima volta in Italia da Einaudi nel 1998 e tradotto da Federica Oddera. Nel romanzo s’intrecciano i temi della magia, del potere, dei profumi dell’India. Tilottama, nome che significa “dispensatrice di vita, generatrice di salute e di speranza”, è una donna che ha dovuto rinunciare al mondo e alla bellezza per esercitare il “ruolo” di maga nella sua bottega delle spezie ad Oakland, in California, che diventa una realtà “magica” in cui pepe nero, cannella, cardamomo, curcuma e zenzero non servono solamente ad insaporire i cibi, ma diventano dispensatori di coraggio, felicità, consapevolezza. Ma per fare ciò a Tilottama è stato imposto di non lasciare mai la bottega e di vivere la sua esistenza tra quelle mura, così che il mondo arriva a lei tramite i racconti e le esperienze dei suoi clienti, perlopiù di origine indiana. Racconti attraverso i quali emergono le numerose difficoltà a cui vanno incontro gli immigrati in un paese straniero: gli insulti, le violenze subite, i soprusi. Dietro l’atmosfera esotica, quindi, uno stralcio della brutale realtà americana, così apparentemente moderna e pronta ad accogliere gente volenterosa ed ambiziosa che si “dia da fare” per costruire la propria vita, il proprio futuro (emblema della filosofia americana l’immagine del “self-made man”). Eppure nonostante ciò, ne “La maga delle spezie” l’autrice tende a portare alla luce episodi, purtroppo non radi, di xenofobia che colpiscono un po’ tutti: dal timido ragazzino che si affaccia all’adolescenza, al venditore ambulante, al giovane tassista. Ma può solamente il potere delle spezie aiutare ad estirpare il razzismo? Può una persona che non vive nel mondo, aiutare i suoi compatrioti in maniera distaccata, senza farsi coinvolgere emotivamente? Tilottama non ci riesce, e più volte disobbedisce al divieto d’uscire dalla sua bottega per portare soccorso ai suoi amici.

La Maga delle Spezie: Profumi dall’India

Oltre i due temi discussi sopra, nel romanzo vi è la classica, e per certi versi banale, storia d’amore: un misterioso, affascinante e benestante uomo dagli occhi magnetici s’invaghisce di Tilottama, nonostante lei abbia dovuto “indossare” il corpo di una settantenne. E come tutte le storie d’amore che si rispettino, nonostante le difficoltà iniziali che “dividono” i due amanti, essi riescono infine a coronare il loro sogno d’amore. Ma a differenza di molti innamorati che si estraniano dal mondo, vivendo avulsi dalla realtà il loro amore, e cercando una sorta di “eden” in cui poter realizzare la loro favola, Tilottama sceglie di viverlo dentro il mondo «[…] perché il paradiso in terra non esiste. C’è solo quello che possiamo fare laggiù, nel fumo, tra le macerie e la carne carbonizzata. In mezzo a pistole e aghi, tra la polvere bianca della droga, i ragazzi e le ragazze che sognano ricchezza e potere e si risvegliano in una cella. Sì, tra l’odio e la paura». Così attraverso una narrazione abbastanza fluida e in prima persona, si esplica un continuo dialogo tra la protagonista e le spezie, che fungono da super-io e coscienza (una sorta di grillo parlante al plurale), con le quali Tilottama s’interroga sulla moralità e correttezza delle sue azioni, che la porteranno a trasgredire man mano tutti i divieti imposti. Ciò rende sicuramente la protagonista, ed in generale la storia narrata da Chitra Banerjee Divakaruni, nella sua fiabesca originalità, più realistica, più vicina ai dilemmi che quotidianamente ci affliggono: se sia giusto osservare i divieti e “vivere” il mondo in maniera distaccata per non lasciarsi irretire dai suoi tentacoli (in un certo senso quello che teorizza la filosofia indiana dello Yoga), o se sia più doveroso affrontare i conflitti, le ingiustizie e le iniquità dell’esistenza. La scrittrice bengalese sceglie apertamente quale via sia preferibile. Ed infatti, ponendosi lo stesso dilemma, arrivava infine a concludere Herman Hesse in “Siddharta”: «Ho appreso, nell’anima e nel corpo, che avevo molto bisogno del peccato, avevo bisogno della voluttà, dell’ambizione, della vanità, e avevo bisogno della più ignominiosa disperazione, per imparare la rinuncia a resistere, per imparare ad amare il mondo, per smettere di confrontarlo con un certo mondo immaginato, desiderato da me, con una specie di perfezione da me escogitata, ma per lasciarlo, invece, così com’è, e amarlo e appartenergli con gioia».



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