La mano di Dio
La mano di Dio
di Iannozzi Giuseppe
I figli di Dio puntano in alto.Io ho sempre preso l’ascensore, anche per arrivare soltanto al primo piano.
E’ sempre stato un dramma: non una volta che non si sia schiantato al suolo.
Ho un problema: mi tocca di dover fare le scale ogniqualvolta sono costretto a spingermi ai piani alti per affari alibi e lavoro, e dispetti soprattutto ai danni di businessmen, così tanto abituati a fare le ore piccole e a sbattersi la segretaria sulla scrivania, quasi sempre alla pecorina.
Odio trovarmi nella tromba delle scale con l’eco dei miei passi, che eppure sono leggeri.
Le ho sempre trovate ridicole le creature di Dio.
Non una volta che una mi sia andata a genio, per cui abbia provato il morboso istinto d’una qualsivoglia forma di pietà.
Gli uomini: tutti ugualmente meschini piccoli, intrallazzatori sporchi, imbevuti di fanatismo fino al midollo. E poi sarei io l’angelo caduto, il Lucifero, il Rimbaud.
Con mio fratello, quel gran fesso di Dio, è da un’eternità che non ci rivolgiamo più la parola, tranne quando prendo possesso d’un suo figlio; e allora sì, ho modo di sputargli in faccia tutta la mia rabbia. E’ difficile trovare oggi un bravo esorcista che non se la faccia nei pantaloni: i più si prendono un infarto appena vedono chi sono e cosa faccio, gli altri se la battono con la coda fra le gambe dicendosi inadeguati al compito. La verità è una sola: hanno paura di me. E mio fratello lo sa. A lui il Paradiso, a me il governo dell’Inferno. Ma siamo uguali.
Lei non era un granché: una delle tante donne in carriera, quarant’anni appena compiuti, gambe snelle, ma il volto tradiva la stanchezza. Piccole rughe sulla fronte, intorno agl’occhi e alla bocca: non si sarebbero neanche notate non fosse stato per tutto il trucco che ci metteva sopra nella speranza di mascherarle. Gabry ha avuto parecchi amanti, ma nessuno che si potesse dire importante per la sua vita affettiva: era una da una sgommata e via. I rapporti a lungo termine le avevano sempre messo un terrore sacro addosso. Scopava per scopare, e non si divertiva neanche più di tanto: aveva sempre la testa altrove. C’erano giorni che non faceva nemmeno la doccia: passava tutta la maledetta giornata in ufficio tra computer, telefonate e appuntamenti di lavoro, e poi alla sera si rintanava nel suo bureau, a capo chino, a studiare atti contratti e altre scartoffie del genere.
Non amo l’altezza.
Questi umani! Credono di sconfiggere la sovrappopolazione tirando su grattacieli di specchi fino a toccare il cielo.
Tombe. Loculi, l’uno sull’altro, fino a formare torri babeliche.
Basta che un piano cada in polvere perché frani tutto il grattacielo.
La lezione che gl’è stata data con la Torre di Babele non gl’è bastata.
Per una volta che mio fratello ne aveva fatta una giusta, tirando giù Babele, mostrando tutta la sua ira. Mostrando soprattutto il suo vero volto, di ira e non di amore.
Ma gli umani più testardi di Dio. Non si sono mai arresi. Volevano costruzioni sempre più alte.
Hanno voluto le ali. Gli aerei.
E’ così fragile una costruzione di tanti piani: basta un niente per buttarla giù. Un colpo di sonno, il malore di un pilota, o di entrambi i piloti… un Boeing che si schianta, e un altro ancora, e delle Twin Towers non è rimasto niente, soltanto uno scheletro accartocciato su sé stesso, macerie fumanti, cadaveri spezzati ridotti in poltiglia.
Un crocefisso alla parete: un uomo, i chiodi ai piedi e alle mani, una corona di spine. Gesù.
Sorrisi a quel fantasma che mai era esistito in vesti divine.
In fondo gli esseri umani non potevano immaginare che quell’uomo, Cristo, non era mai stato il figlio di mio fratello ma solamente un filosofo un po’ troppo squinternato, il cui spirito è per l’eternità tra le fiamme del mio uffizio!
Io non faccio altro che prender possesso d’un corpo, o meglio dell’anima che racchiude ed è essa che mi scopo. Già! Mi scopo l’anima. Questa è la possessione. L’orgasmo ultimo che porta alla pazzia completa e poi alla tomba. Che porta a me.
E’ ridicolo e imbarazzante un esorcista che, coi suoi paramenti sacri, invoca il nome del Signore, schiumando acqua benedetta. Ridicolo, mi fa perdere la concentrazione, mi scappa da ridere: chiama e chiama e chiama quel pazzo di Cristo che è da un’eternità praticamente che è ospite a casa mia a scontare le pene dell’inferno. Dio è più figlio di puttana di me, per usare un’espressione colorita molto in voga fra i mortali: quando ha sentito di quell’Esseno, di Cristo che andava in giro per il mondo a spacciarsi per Re dei Giudei e figlio suo, non ci ha pensato su due volte a sbatterlo fra le fiamme eterne, arrivando sino al punto di disconoscerlo anche come semplice mortale. E l’ha sbattuto da me, da Lucifero, sbraitando che per nessuna ragione al mondo avrei dovuto ricordargli che quell’Esseno si era spacciato per Re, ecc. ecc. Peccato che proprio gli uomini l’abbiano eletto figlio di Dio: questo mio fratello non se lo aspettava proprio. Con quel Cristo, un poveraccio alla fin dei conti, un filosofo, un esaltato a dirla tutta, Dio se l’è presa proprio a morte, non c’è dubbio alcuno. In tutti questi anni non ne ha voluto che sapere né da me né dai suoi figli mortali e peccatori. Quando qualcuno osa impetrare Cristo, mio fratello si tappa gli orecchi e comincia a cantare, manco fosse Elvis Presley.
Gabry, come al solito, era china sulle sue cartacce.
Era da tempo che non faceva una vera doccia. Il puzzo della sua pelle umida di sudore lo potevo sentire senza sforzarmi le nari. Portava addosso anche un altro odore, quello del maschio che l’aveva montata l’ultima volta. Sorrisi fra me e me, sicuro come Dio, che era proprio un bocconcino. Un corpo sporco accoglie un’anima altrettanto sporca se non di più.
Bussai alla porta. Non ce n’era bisogno, mi piaceva però inscenare un po’ di teatrale umanità. Gabry era assolutamente perfetta.
La penetrai così come si taglia un panetto di burro.
Il suo corpo inarcò la schiena in un spasmo.
La sua bocca eruttò orgasmi in tutte le lingue del mondo conosciuto e non.
Gli occhi le uscirono dalle orbite.
I capezzoli dei seni si fecero duri come chiodi.
Le labbra vaginali s’aprirono come un bocca pronta a partorire il figlio del diavolo.
Le gambe e le braccia si disposero in modo tale da disegnare una croce.
La sua anima era più sporca di quanto speravo. Erano anni che non si confessava.
Quando uscii dal suo corpo, era più morta che viva.
Non accade tutti i giorni che si venga stuprati nell’anima.
La trovò un addetto alle pulizie.
Poco ci mancò che si beccasse un coccolone.
In ambulanza le fecero il massaggio cardiaco per venti minuti buoni.
La pellaccia la salvò: i medici dissero ch’era un miracolo che fosse ancora viva.
Non sapevano spiegarsi cosa le fosse accaduto.
Non c’era una spiegazione medica.
Ma quando riprese conoscenza era, per così dire, invasata. Panicata.
Le fecero un numero imprecisato di TAC.
Niente.
Per la medicina ufficiale era sana.
Non rimaneva che un’ultima via da tentare: quella del Signore.
Fu dunque chiamato un esorcista.
La camera di Emily era in alto, al 17mo piano.
Gabry fu messa di fronte al vecchio barbagianni che tremava come una foglia al vento.
Fui tentato di stuprarla di nuovo proprio sotto gl’occhi di quello sciocco. Però non ne avevo più voglia.
Me l’ero fatta. Le avevo fatto vedere l’inferno che l’attendeva, un’immagine di cui non si sarebbe liberata per il resto della sua meschina vita.
Potevo dirmi soddisfatto.
Tuttavia quella vecchia anima m’attirava.
Era sporca la sua anima.
Ne sentivo il puzzo nauseabondo.
Era un bocconcino eccitante.
Dovevo solo riprendere fiato. Diciassette piani non sono uno scherzo nemmeno per Lucifero. Sedici in verità: l’elevator si è schiantato subito dopo un piano, quindi ne ho fatti sedici di piani a piedi.
I pompieri stavano cercando di capire com’era stato possibile che l’ascensore, così, di punto in bianco, fosse precipitato.
Non avrebbero trovato nient’altro che una scia di zolfo.
Dio gettò un’occhiata dabbasso ma distrattamente e subìto scosse il capo rassegnato. Poi si alzò dalla poltrona lasciando che le ossa gli scricchiolassero ben bene. Sbadigliò annoiato, poi realizzò quello che Lucifero aveva appena fatto, si adirò un pochetto e tirò fuori una scoreggia. Con lo sguardo attraversò la cortina di nubi per vedere il fratello bene in faccia: stava stuprando il vecchio barbagianni in nero, uno spettacolo penoso che in tanti anni aveva visto fin troppe volte. Sbuffò: “Non mi assomiglia per niente!”. Si grattò una natica sulla quale era nato un grosso brufolo, purtroppo non ancora maturo. Niente pus. Avrebbe dovuto aspettare prima di schiacciarlo con un colpo di mano. Porco mondo se gli faceva male, un male cane soprattutto quando stava seduto sul suo scranno a sonnecchiare mezzo ubriaco e quasi del tutto rincoglionito.
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