La mattanza
Era la prima cosa che Francesca pensava quando si metteva con qualcuno E poi, come lo lascio? Per questo non s’era messa con Antonio, troppo possessivo e violento, non aveva accettato di andare a stare a casa di Matteo, troppo bambinone e mammista. Aveva preferito Lucio con la testa sul collo, razionale, soprattutto razionale. Erano stati due anni piacevoli, con serate al ristorante e il solito tran tran quotidiano vivacizzato da qualche week end in cui sbandavano qua e là in cerca di nuovi luoghi dove fare l’amore. Avevano fatto l’amore a Portofino, a La Spezia, a Monterosso, ad Amalfi, ma anche nel loro letto di Savona. Nel loro miniappartamento di cinquantasei metri quadrati con vista lato monte e la cucina grigia firmata. Ma adesso era finita. Era da giorni che voleva dirglielo e non trovava le parole. Tutto finisce. Bisognava prenderne atto. Aveva solo ventotto anni, una vita davanti. Quando avevano deciso per quella convivenza aveva parlato di una prova, una prova a tempo. Bene, ora il tempo era scaduto e lei voleva andarsene. Non avrebbe dovuto essere difficile farglielo capire. Eppure due volte si era trovata vicinissima a parlargli e s’era trattenuta. Aveva pensato che Lucio non era ancora maturo. Aveva avuto un presentimento che la inquietava. Forse era solo paura, debolezza. Forse non aveva il coraggio di dirgli la verità. Lucio aspettava che lei sparecchiasse e lei sparecchiava, Lucio aspettava che lei gli carezzasse i capelli e lei lo faceva. Continuava a recitare la sua parte, continuava a farlo sentire un piccolo dio. Ma il suo pensiero era lontano. Avrebbe potuto dirgli “Lucio caro, ognuno per la sua strada, non prenderla male, ci siamo voluti bene, ma adesso è finita”. Avrebbe capito? Oppure poteva fare un discorso diverso, tirar fuori i suoi lati negativi, la sua mancanza di puntualità, il suo disordine, diventare noiosa e rinfacciargli le mille quisquiglie e inadempienze di ogni giorno e continuare così a lungo fino a diventare noiosa al fine che lui mollasse infine la preda e la lasciasse in pace. Poteva essere un’idea. Ma quanto sarebbe durato quello stillicidio? Poteva anche succedere che Lucio passasse sopra a tutto, come in effetti lei era passata sopra ogni suo difetto quando era innamorata. Perché è così. Quando si ama non si va per il sottile, è solo dopo che si vede ogni cosa. Quando l’amore finisce. Un giorno ce ne troviamo sprovvisti. E l’uomo che nel letto sbadiglia e si avvicina o ci mette le mani sul culo ci infastidisce. E allora proprio non puoi. È questo il problema, non puoi. Il maschio non capirà mai. Lui è capace di fare l’amore anche con una vecchia baldracca per cui non sente niente e che mentre glielo succhia gli dice “Sei splendido amore mio”, e poi tira fuori la mano per intascare veloce il suo centone. Come sono gli uomini! Carla rise e si prese una caviglia tra le mani. Dunque, doveva dirglielo. Lui stava già subodorando qualcosa. “C’è qualcun altro?” le aveva chiesto qualche giorno prima, a cena. Lei aveva detto di no. Era vero. Voleva solo andare per i fatti suoi, ritornare a fare vacanza con le amiche, godersi quei suoi anni veloci. Dopo avrebbe pensato a una maternità, a un lavoro fisso, a un marito.
La sera scendeva presto. Ottobre, e nella macchina era già buio. Vedeva nella poca luce il volto scuro di Luca. Vedeva le sue labbra strette. Labbra di delusione e di rabbia. “Facciamo l’amore per l’ultima volta”, le aveva chiesto lui, lì in quello slargo di periferia dove tante volte s’erano amati. Ma lei aveva detto “No. Non posso proprio, non me la sento”, e lui l’aveva baciata a forza e aveva sentito le sue labbra fredde e mute e non capiva perché le sue mani non le facevano più effetto, perché la magia fosse a un tratto finita, non capiva proprio, forse perché lui era fatto in modo diverso, era un uomo. Si sentiva infuriato e impotente davanti alla sua freddezza. Perché le donne sono sempre capaci di gestirsi al meglio, capaci di dominare l’uomo? Una rabbia sorda gli saliva dal ventre e non era solo la voglia di scopare, era la frustrazione e la rabbia per la non disponibilità di lei. La rabbia per la sua debolezza. La schiaffeggiò e fu subito un po’ più calmo. Due lacrime negli occhi ridenti di Carla lo fecero quasi star bene. Dunque c’era ancora campo, si disse. “Vieni qui”, tentò e allungò una mano sui suoi fianchi come aveva fatto tante volte, carne sua, che di notte si apriva, che gli dava sollievo e il senso di esistere. Ma Carla si era subito ripresa, aveva aperto la portiera e si era messa a camminare tranquilla in quell’orrenda periferia dove poteva capitarle di tutto, dove era sola e non aveva paura, mentre con lui in quella nicchia-covo-tana-alcova-letto quasiconiugale aveva detto Vado via, qui non mi sento al sicuro. Con lui? Con lui che l’amava?
Carla camminava lungo la strada sterrata, decisa ad andarsene sola a casa perché non avevano altro da dirsi e lei già pensava all’esame di statistica e alla partenza di fine mese. Gli aveva detto “Puoi mandare Marco o venire tu stesso sabato a prendere le tue cose. D’accordo?” E se n’era andata.
Se ne andava. Camminava sola e sicura lungo il bordo della strada. Con le mani lungo i fianchi. Le gambe lunghe. Il collo proteso un po’ avanti.
Non aveva una pistola né un coltello. A mani nude la uccise.
Marina Torossi Tevini da L’Occidente e parole Campanotto editore 2012