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La Meccanica dell’Orrore

Creato il 02 gennaio 2014 da Elgraeco @HellGraeco

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Si parla di orrore dalla mia amica Lucy, di finalità del prodotto dell’orrore, nella fattispecie un (generico) film horror.

Film che mostra determinati elementi onde (ri)produrre nello spettatore l’effetto stabilito, pianificato.

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Si parlava di immedesimazione. Ovvero, la potenza del film è tale, nella messinscena dell’umana natura, attraverso tipi umani ben delineati, che spinge lo spettatore al processo di identificazione. Cosa farei io, se mi trovassi al posto di *nome attore*… a fronteggiare Jason di Venerdì 13?

Oppure Freddy Krueger di Nightmare?

Oppure ancora lo squalo di Jaws?

E via dicendo.

La mia riflessione che ne è scaturita si fonda sul concetto e scopo ultimo dell’identificazione dello spettatore nell’orrore. O circa l’intento da parte del regista (Fessenden) di proporre lui stesso una risoluzione per un orrore che, sempre da solo, ha voluto scrivere e mettere in scena.

Orrore che, ricordo, affianca da sempre il concetto di monstrum o prodigium, per segnare un distacco brutale dalla realtà quotidiana.

Ebbene, a mio avviso si può parlare di Meccanica dell’Orrore, in senso assoluto, ampio e universale, più che di tentativo personale di comunicazione tra narratore e fruitore. Che si ripete, quest’ultimo, ad ogni nuovo film.

Ovvero, l’orrore, da sempre, fino a quando poi è divenuto milionaria industria cinematografica di intrattenimento, è un prodotto vincolato a certi sistemi, più o meno modificabili a seconda dell’esigenza.

Talmente evidenti sono i meccanismi attraverso i quali lavora che si potrebbe parlare, come fa Viviana Verdesca nel suo articolo Fisica dell’orrore e logica del senso/della sensazione, per l’appunto di fisica. Ovvero materia soggetta a leggi immutabili e a fenomeni riproducibili.

L’orrore avrebbe, in teoria, data la sua netta demarcazione dall’ordinario, apparente scientificità. Invero, può essere riprodotto tramite sperimentazione: si testano i film sugli spettatori, fornendo loro temi e oggetti specifici, ai quali corrisponde, meccanicamente, una reazione emotiva sconvolgente.

Raffigurazione classica dell’orrore nelle arti è un binomio: agente dell’orrore (o mostro, o prodigio) – vittima.

Spesso restando, il primo, nell’ombra. Meglio ancora al buio, celando la sua presenza che, sottintesa, genera angoscia. Fino alla rivelazione.

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Oppure mostrandola apertamente, come faceva Kubrick, senza celare dettagli brutali, il sangue sui corpi martoriati delle gemelline dell’Overlook Hotel, ma in una rappresentazione tale, e talmente lontana dal quotidiano, da provocare in chi osserva, di solito la (futura) vittima dell’agente, uno stato di alterazione che ha, come prima conseguenza, la modificazione repentina della mimica facciale. Che passa da uno stato di serena tensione, al terrore, spalancando occhi e bocca, distorcendo il viso, urlando.

L’identificazione che scatta non è tanto nel personaggio o nella situazione specifica, a mio avviso, ma nella meccanica che ripropone, trovando piena corrispondenza di sensazioni nello spettatore, le dinamiche dell’orrore, rievocando in lui lo sconvolgimento emotivo. Un salto che, permanendo nella finzione cinematografica e/o letteraria, di fatto crea sensazioni piacevoli (per paradosso, altrimenti l’intrattenimento non funzionerebbe), evocando suggestioni estreme che noi altri, in circostanze dubbie, ma quasi sempre senza esito infausto, abbiamo provato, e decorandole con quel superamento dei limiti che in realtà non vengono (quasi mai, salvo casi sfortunatissimi) superati.

Pensateci, quanti di noi vedranno o hanno mai testimoniato un omicidio? Pochissimi, per fortuna. Eppure, pur non avendone testimonianza diretta, l’orrore dell’omicidio, della morte, ci colpisce a livello istintivo.

L’orrore ci regala sentimenti estremi pre-confezionati, la scarica d’adrenalina, l’angoscia che, in vita, quasi mai proviamo per intero.

E, a lato, c’è la meccanica del mostro. L’orrore combatte da sempre contro il realismo. Fornisce, forse più degli altri generi, contenuti che rompono la tradizione, anche quando parla di “normalità”.

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L’orrore segna una rottura. Quest’ultima è attesa, vagheggiata e allo stesso tempo temuta. Fa parte del pacchetto, insomma. È, in ultimo, il dono che l’intrattenitore/narratore dispensa allo spettatore/vittima. La promessa che, per quanto lo scenario rappresentato sia verosimile, esso, a differenza della vita reale, verrà squarciato da un evento incoercibile, o in apparenza tale.

La vittima può restare uguale a se stessa, a noi: subire impotente le conseguenze delle azioni del mostro. Oppure trascendere la propria natura, i propri limiti (in quello che è inteso come duplice superamento del quotidiano, verso una dimensione mitologica o quasi: la trasfigurazione) e combattere il mostro con la sua nuova natura acquisita.

Il bisogno di spaventarci è atavico, alcune paure comuni a tutte le culture: l’ignoto, il diverso, il buio.

Il mostro.

Il prodigio.

La creatura aliena prima che fosse umanizzata, tentando di donarle una componente sensibile (per una distorsione del concetto di tolleranza, suppongo, giunto ai limiti estremi e quindi paradossali), com’è d’uso fare oggi. Componente che, di fatto, oltre a snaturarla, la priva della caratteristica specifica che la rende tale: l’orrore che ci incute e suscita, anche solo attraverso la propria esistenza e, in secondo luogo, attraverso le proprie azioni.

Il mostro è il nemico. Erano le fatiche di Ercole, quelle che solo il semidivino o il divino potevano affrontare. Oppure l’uomo normale, con l’aiuto degli Dei. Era uno scherzo della natura che ostacolava e minacciava la nostra sopravvivenza. Nessuna ambiguità, nel mostro, ma purezza d’intenti.

Venuti meno gli dei, ad affrontare l’orrore sono rimasti gli uomini. I mortali. Soli e perduti. Col fascino e l’incoscienza che da tali imprese straordinarie sempre derivano.


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