C’era un discepolo a Damasco, di nome Anania; e gli disse in visione il Signore: «Anania!». Egli allora disse: «Eccomi, Signore!». E il Signore a lui: «Alzati, va’ sulla via, quella chiamata diritta, e cerca in casa di Giuda un uomo di nome Saulo, di Tarso. Ecco, infatti: questi prega e ha visto in visione un uomo di nome Anania entrare ed imporgli le mani perché tornasse a vedere». Rispose dunque Anania: «Signore: ho sentito da molti, riguardo a quest’uomo, quanti mali ha fatto ai tuoi santi in Gerusalemme; e qui ha autorità dai sommi sacerdoti di incatenare tutti quelli che invocano il tuo nome». Gli disse allora il Signore: «Va’, perché costui è per me un vaso scelto per portare il mio nome davanti alle genti, ai re e ai figli d’Israele. Io, infatti, gli mostrerò quante cose bisogna che egli patisca per il mio nome» (Atti degli Apostoli 9:10-16)
La storia di Saulo/Paolo, così come è narrata nel libro degli Atti, è una storia intrigante, piena di incontri, colpi di scena, ribaltamenti. Il nostro racconto di oggi parla di lui, della sua complessa e commovente vicenda personale, anche se, nel passo che abbiamo appena ascoltato, Saulo non compare sulla scena e non prende la parola direttamente. Chi vi appare e dialoga, piuttosto, è Anania, che viene definito con semplicità discepolo di questa via sorta in seno all’ebraismo non ortodosso che si richiamava alla vita e all’insegnamento di Gesù di Nazareth. Già il senso del suo nome, su cui le nostre traduzioni in lingua italiana non si soffermano, rinvia volutamente alla radice del verbo ebraico ‘anan, «reclamare»: la proposta all’apparenza assurda che gli verrà rivolta, difatti, per risultare credibile a chi ascolta il racconto dovrà subito incontrare la tenace resistenza della perplessità e dell’obiezione.
La proposta proviene ad Anania, il “rimostrante”, attraverso una visione e riguarderà, significativamente, la condizione di un uomo che la vista, invece, l’ha persa. A chiamarlo, senza alcun dubbio, non è Dio ma Gesù, così come era stato Gesù e non Dio ad apparire a Paolo lungo la via di Damasco, là dove anche Anania si trova. L’episodio, ad ogni modo, è del tutto analogo, se si eccettua la visione, alle chiamate di Abramo e di Mosè nel libro della Genesi, o a quella di Samuele nel libro omonimo: e analoga è anche la risposta di Anania che prontamente dichiara il suo “eccomi”.
Il primo invito, proprio come quello rivolto ad Abramo, è al movimento: “Alzati”, condizione indispensabile per l’inizio di azione, di ogni incontro. Si tratta della solita interazione, della consueta sinergia tra Dio ed essere umano che i testi biblici mostrano ad ogni piè sospinto e che tanta pia teologia, protestante assai più che cattolica, ha tradotto in un abisso incolmabile che separa irrimediabilmente noi e il divino. Il Dio biblico, invece, per agire si serve di mani e, prima ancora, di piedi d’uomo o di donna, dei quali ha bisogno per raggiungere e per risollevare. Di qui in avanti, il testo è tutta una catena di allusioni. La prima è rappresentata dal nome della via presso cui Anania è chiamato a recarsi: significativamente, infatti, il suo nome è diritta, o anche retta o buona; Paolo, ora, dimora lì, in quella strada che è chiamato a seguire, dopo averla a lungo non soltanto disertata ma persino contrastata. Quest’uomo, infatti, ha perduto la vista: altra immagine ricchissima di significati. Secondo un paradosso tipico della cultura greca, in particolare del pensiero tragico, la verità delle situazioni non asseconda la presunta evidenza, ma viene espressamente a contraddirla.
Così come nell’Edipo Re di Sofocle è Tiresia, l’indovino cieco, a rivelare come in realtà stanno i fatti, Paolo dovrà passare attraverso l’esperienza della cecità per comprendere che, in realtà, quando possedeva la vista non comprendeva ciò che era giusto, anzi, lo combatteva. In verità, dunque, Paolo era cieco prima di diventarlo e, ora che ha perso fisicamente la vista, incomincia davvero a capire: la cecità che lo ha colpito vuole renderlo attento a quella, assai più grave, che lo ha affetto per lungo tempo, facendone un persecutore inflessibile dei primi seguaci di Gesù.
Questa zelante attività di inquisitore ante litteram svolta da Saulo era tutt’altro che ignota ai seguaci della sinagoga di Damasco: tanto che lo stesso Anania, credendo forse che in quelle parole del Gesù apparsogli dovesse esserci un errore o, per lo meno, qualche svista, rammenta al suo Signore: «Forse non ti sei reso conto che l’uomo al quale mi stai mandando è uno dei più feroci persecutori dei tuoi discepoli in questa città: considera bene l’assurdità di questa richiesta e i rischi a cui essa mi espone». Saulo infatti, ricorda Anania, ha addirittura ricevuto un mandato esplicito dai sacerdoti del tempio di Gerusalemme per condurre in catene gli ebrei che professano la loro fede in Gesù come messia e figlio di Dio promesso dalle Scritture: dai sacerdoti, da quelli che avevano sostenuto l’accusa contro Gesù che lo portò poi alla morte di croce. Insomma: si rendeva conto di chi stava parlando? Era sicuro di non essersi confuso?
Ma Gesù non si è confuso e svela quelli che sono i suoi progetti per quel persecutore incallito: farne un discepolo del tutto particolare, che porterà il lieto annuncio alle orecchie non soltanto degli ebrei, ma persino di re e pagani, sfidandone il potere e l’eloquenza.
La parola usata da Gesù, ancora una volta andata perduta nelle nostre traduzioni, è: «Farò di lui un vaso». È un’immagine che richiama volutamente quella assai cara alla letteratura profetica ebraica e, in particolare, a quell’Isaia di cui Gesù fu discepolo, di Dio come vasaio: come il Padre, anche Gesù intende plasmare le donne e gli uomini disposti a seguirlo con la vita prima ancora che con l’annuncio; e quest’immagine dice cura, contatto, carezze. Ma anche il vaso in quanto oggetto parla di uno spazio cavo, pronto ad accogliere, a ricevere e, dalla stessa apertura, a riversare: è ciò che Paolo sarà chiamato a fare con l’evangelo, che prima lo ricolmerà sin nelle viscere e poi lo porterà all’inevitabilità dell’annuncio, anche in questo caso con la vita prima che con le parole o, per meglio dire, con parole che sono figlie dell’esperienza e che per questo soltanto sono cariche di significato e di intensità. Questo entusiasmo, questa necessità di far sgorgare un evangelo che ci ha prima sommersi come in una piena, è ciò che in buona parte abbiamo smarrito, trasformandolo o in fanatismo cieco, che ha nuovamente perso di vista l’altro come orizzonte di una fede pienamente umana, o in fredda erudizione, che sminuzza i testi ma, pur spiegandoli con dovizia di particolari, in verità rimane cieca rispetto al senso perché sorda di fronte a quell’esperienza da cui ogni fede autentica matura. In entrambe i casi, fondamentalisti e intellettuali borghesi, abbiamo separato la fede dalla vita, rinchiudendola in un sistema di dottrine ottuse o presuntuose. L’evangelo invece, così come Dio, è traboccante e, proprio come i fiumi, feconda i cuori soltanto quando tracima, rompendo quegli argini che noi mettiamo a guardia della sua rigogliosa esuberanza.
Il risultato a cui porta il lasciarsi travolgere dalla piena, all’apparenza, non è certo esaltante: Gesù comunica ad Anania che presto Saulo comprenderà le conseguenze di questo annuncio che lo porterà alla più profonda delle metamorfosi, quella da persecutore a perseguitato, che è poi la trasformazione inversa rispetto a quella a cui andrà incontro il cristianesimo, quando da movimento diventerà istituzione e da insieme di comunità plurali diverrà chiesa dogmaticamente configurata.
Ma quello che trovo essere il significato più profondo e sorprendente del nostro testo è un altro, e non risiede nelle sue parole conclusive, ma nell’azione che lo percorre dall’inizio alla fine e che porta al ribaltamento dei convincimenti. Anania il “rimostrante”, infatti, è invitato a comprendere che, secondo Gesù e il suo evangelo, nessuna persona può essere inchiodata al suo passato: anche per il persecutore è possibile la teshuwah, quella che noi traduciamo con il termine conversione ma che, in verità, consiste letteralmente nel percorrere a ritroso la stessa strada, perché il passato non va dimenticato ma assunto. Quel che ho fatto non posso cambiarlo ed è inutile, oltre che falso, provare a negarlo: però posso cambiare quel tratto di strada che mi rimane davanti una volta che ho ripercorso quella vecchia e riconosciuto i miei errori. Anche se piombato nella cecità, posso recuperare la vista. Gesù chiede ad Anania di dare fiducia a questo Saulo che sembra non meritarla: e sarà questa fiducia donata ed inattesa, assai più che un intervento miracoloso, a creare le condizioni per il risanamento: è la fiducia accordata a curare.
Ma c’è un ultimo passo, indispensabile, che vorrei provare a compiere con voi, allo scopo di sfatare uno stereotipo comunissimo, specie nelle chiese.
La fiducia, difatti, non risana soltanto chi la riceve ma anche, e forse ancor più, chi impara ad accordarla. Nel nostro racconto non è soltanto Saulo a dover essere risanato, ma anche, e forse ancor prima, Anania, che ha smarrito la capacità di fidarsi. Accordare la fiducia è gesto che guarisce chi sa compierlo prima ancora che chi lo riceve. È quello che noi chiese, spesso inclini ad intendere la fiducia come una sorta di generosa elargizione, dobbiamo ancora imparare. Se capiremo che essere fedeli a Gesù e al suo evangelo, come comunità e come discepoli, significa concedere sempre all’altra, all’altro, l’opportunità di ricominciare e di farlo insieme con noi, che siamo disposti a credergli, allora, forse, guariremo anche noi.
Alessandro Esposito – Domenica 26 Maggio 2013 - www.chiesavaldesetrapani.com