La memoria: la nostra ricchezza.

Da Renzo Zambello

Abbiamo passato da poco il Giorno della Memoria, il 27 gennaio, giornata in com memorazione delle vittime dell’Olocausto. La ricorrenza ha lo scopo di onorare i caduti ma, soprattutto, di sforzarci a non dimenticare. Sappiamo che se la storia cade nell’oblio perderemo la ricchezza dell’esperienza di noi stessi. Non è retorica, ma la constatazione quotidiana che noi siamo la nostra memoria.

Proprio domenica ho visto a Milano la bella mostra “BRAIN Il cervello Istruzioni per l’uso” allestita nel Museo Civico di Storia Naturale, dove mostrano bene i meccanismi biologici che ci permettono di ricordare e come il ricordo agisca oltre la nostra volontà. Ne avevamo già avuto conoscenza con la risposta post-traumatica che è una risposta extra corticale, diremo: “inconscia”.

I neuro-psicologi ci hanno abituato a conoscere una memoria a breve termine e una a lungo termine che interessano aree diverse del nostro cervello. Un paziente mi raccontava di avere un padre affetto da Alzheimer che faceva tutto il giorno le parole crociate. Poi un giorno smise di fare anche quelle ma era evidente che per un periodo sufficientemente lungo quel signore aveva perso la memoria a breve termine rendendogli impossibili le relazioni normali ma ricordava “le nozioni” antiche che gli permettevano di fare le parole crociate.

Però, le cose non sono mai semplicissime e anche la memoria a lungo termine si suddivide in:

- Memoria dichiarativa o esplicita (riguarda le informazioni che vengono richiamate consciamente).

- Memoria procedurale o implicita (riguarda le informazioni relative a comportamenti automatici).

Oggi sappiamo che anche questi due tipi di memoria, esplicita e implicita, coinvolgono parti diverse del cervello. La prima, la memoria dichiarativa esplicita, coinvolge principalmente la corteccia cerebrale, mentre per la memoria procedurale o implicita sono coinvolte le strutture sottocorticali, come l’ ippocampo. E’ quest’ultima , la memoria implicita, che corrisponde verosimilmente all’inconscio freudiano. Freud si era interessato alla memoria mostrando come questa si riproponesse anche con dinamiche transferali all’interno del rapporto analitico. Aveva così introdotto il concetto della “coazione a ripetere”. Egli sosteneva che tanto maggiore è la resistenza verso la terapia e verso la coscienza di quello che è stato rimosso, tanto più grande è la ripetizione e la coazione a ripetere. Cioè, la coazione a ripetere, difende il paziente dall’ansia derivante dal ricordo.

Stefano, 35 anni che ho seguito per quasi 2 anni era venuto da me per una importante sintomatologia ansiogena depressiva che a suo parere era comparsa come esito di un intervento neuro-chirurgico dove gli avevano asportato un meningioma di circa 7 cm in zona occipitale. Egli raccontava che prima della diagnosi e successivamente all’intervento, aveva passato quasi un anno in uno stato di soggettivo malessere , con la percezione di un continuo o progressivo degrado delle sue capacità cognitive. Conosco il problema da un punto di vista clinico e non avevo dubbi sulla sintomatologia oggettiva che lui raccontava ma, non mi convinceva molto che lo stato ansiogeno depressivo che lo avvolgeva fosse direttamente collegato all’intervento. Nel nostro rapporto analitico c’era un agito che lui ripeteva in maniera coattiva: arrivava, sempre con 15 minuti di ritardo. Per anni è arrivato in studio in ritardo, quindi si giustificava con una certa mortificazione per l’accaduto che a suo dire, aveva fatto di tutto per evitare ma che eventi di forza maggiore lo avevano determinato. Era ossessivamente puntuale nel ritardo di 15 minuti. Per la verità nel nostro rapporto il ritardo non era l’unica coazione a ripetere. Infatti, su 50 minuti, quanto dura una seduta, quindici arrivava in ritardo, per altri 20 minuti si lamentava sistematicamente dei suoi malanni, delle sua sintomatologia ansiosa, delle frustrazioni lavorative e finiva la seduta col descrivermi il suo disagio pre o post intervento chirurgico. Ogni mio intervento che lo portasse a “qui e ora” tra me e lui, cadeva nel vuoto. Perché, perché questa coercitiva coazione a ripetere? Non lo raccontava. Simbolicamente coglievo che non avesse tanta fiducia in me, non si fidava e intanto “mi diceva” che l’intervento chirurgico, il tumore, avevano definitivamente determinato un futuro senza grandi speranze.

Eppure, contemporaneamente in lui agiva qualcosa che era ancora pulsante, vitale, ma , rispetto al quale si difendeva, si bloccava, si nascondeva.

L’altra settimana mi raccontava che alle superiori lui era un bravo ragazzo, studioso e preciso, ma, sia la mamma che i professori ed anche i suoi compagni preferivano suo fratello. Lui ricordava che il fratello, più vecchio di un solo anno, era sempre considerato il più bravo e veniva premiato e stimato. Mi disse, abbassando la testa: “ E’ sempre stato così, poi mi sono ammalato e non mi è interessato più nulla”. A fine seduta mi sembrava profondamente turbato e per la verità non capivo bene cosa fosse veramente successo.

Oggi, mi ha telefonato per avvisarmi che per motivi lavorativi non potrà più venire ai nostri incontri.

Credo abbia intravisto “i suoi fantasmi”.

Cosa farà ora Stefano? Non lo so e io non posso farci niente: aspetto. D’altra parte credo a quello che scriveva Racalbuto in ‘La nascita della rappresentazione tra lutto e nostalgia’: “ Siamo sempre a contatto con un paradosso: la separazione e il lutto, che sono alla base dei vissuti traumatici, sono anche alla base della guarigione e di una nuova esperienza relazionale”.

Se l’analisi gli ha permesso di uscire dal guscio difensivo e mortifero della coazione, ha funzionato.

di Renzo Zambello

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Tags: la memoria, memoria


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