Esattamente settant’anni fa, il 27 gennaio 1945, le truppe sovietiche guidate dal maresciallo Koniev aprono i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz. Quella data viene ricordata come “giorno della memoria” in ricordo della Shoah, ovvero lo sterminio del popolo ebraico. Quel giorno è stato scelto non solo per ricordare tutte quelle vite, ma anche per lanciare un messaggio chiaro: ciò che è successo non si deve più ripetere. Quel messaggio, a quanto pare, non è stato recepito da tutti alla stessa maniera, mi spiego: ogni volta che una persona viene uccisa per il “colore”, per la “razza” o per l’orientamento sessuale o politico, quel messaggio viene infangato. E vengono infangate anche tutte quelle persone che hanno perso la vita a causa di un’ideologia folle. Ideologia partita da un certo Hitler, conosciuto anche come Führer, il quale sosteneva la teoria della “razza ariana”: un immaginario gruppo razziale praticamente perfetto e, quindi, superiore a tutte le altre “razze”. Partendo dal fatto che non esistono “razze umane”, bensì popoli di diverse etnie, religioni e quant’altro, Hitler passò dalle parole ai fatti: cominciò a deportare tutti colo che non appartenevano alla razza ariana nei campi di concentramento (o “campi di lavoro” come li chiamavano i nazisti).
Quei cosiddetti “campi di lavoro” erano in realtà veri e propri campi di sterminio in cui vennero commesse delle atrocità inimmaginabili, trucidando milioni di persone:
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6 milioni di ebrei;
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circa 300.000 ROM;
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300.000 persone disabili;
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100.000 oppositori politici (per lo più comunisti);
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25.000 omosessuali;
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5.000 testimoni di Geova
Questi sono dati che si possono trovare su qualsiasi libro di storia o sito internet. Qualcuno li definisce statistiche, altri addirittura numeri. Ogni numero corrisponde ad una vita, ad una persona. Persone che avevano sogni, ambizioni. Persone che avevano figli, mogli e parenti. Comuni e mortali famiglie che, come tali, se ne sono andate. Vite strappate. Vite spezzate. Vite spazzate. Vite cancellate. Eppure c’è ancora gente “convinta” che tutto ciò non sia mai avvenuto. A distanza di settant’anni, questa è una di quelle cose che brucia di più: l’indifferenza di queste persone. Fingere che non sia successo niente non è la soluzione, è per questo motivo che ancora oggi troppe persone muoiono solo perché considerate “diverse”. Ma io mi chiedo: diverse da chi? Diverse da cosa? Che avranno mai fatto di male quelle povere persone per subire tutto ciò? La risposta è l’ignoranza: ignorare la libertà del prossimo “etichettandolo” come diverso solo perché di diverso hanno il punto di vista o, in altri casi, il colore.
La pace nel mondo, ormai, è un’utopia che inseguiamo da secoli e secoli, ma cercare un punto d’incontro è davvero così impossibile? Forse sì, forse no. Comunque sia, abbiamo smesso di sperare. E, si sa, quando smetti di sperare, smetti di crederci.

‘I tre volti della storia’ (di Viola Sanna)
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