Quando Pasolini è morto avevo 22 settimane di vita. Rappresento, quindi, la prima generazione che ha dovuto fare a meno di lui, e che forse – anche per questo – non ne ha potuto più fare a meno. Qualunque cosa sia accaduta quella notte del 2 novembre 1975, la versione ufficiale potrà anche non essere vera, o, come ritengo più probabile, incompleta, ma era del tutto verosimile: è facile immaginare cosa significasse essere omosessuali, ultracinquantenni e perdipiù celebri, più di trent’anni fa in Italia, lo stesso paese dove due ragazzi che camminino mano nella mano nella Capitale nel 2011 rischiano di prenderle. Penso che questo sia un elemento da non scordare. Poi, naturalmente, c’è il contesto.
Pier Paolo Pasolini, quando muore, non ha praticamente amici, né a sinistra, né tantomeno a destra. E in nessun ambiente, nemmeno – ma io direi, particolarmente – nella società letteraria del suo tempo. A parte Moravia, col quale intrattiene fino all’ultimo una relazione e un’amicizia anche scontrosa ma sincera, Pasolini non è affatto amato. Sanguineti gli dà del fascista; Calvino lo punzecchia e interpreta la parte che gli riesce meglio: quella insopportabile e irritante dell’intellettuale organico; Fortini gli dà sferzate pesantissime poiché non lo ama né come critico (ma questo perché avvertiva che Pasolini era il solo che aveva il talento di sottrargli il trono) né come politologo. Certo, va da sé che se oggi rileggessimo certe affermazioni politiche di Fortini potremmo pensare benissimo quel che lui pensava di Pasolini. Si può dire che Pasolini non era mai stato tanto solo come negli ultimi due anni della sua vita. Era paradossalmente tornato nelle stesse condizioni di quando era arrivato a Roma nel 1950, scappato da suo padre, con sua madre, dopo lo scandalo di Casarsa. Quando venne accusato di molestie ad un minore. Come era arrivato a questa condizione? E perché?
Pasolini aveva intrapreso alcune carriere parallele a quella di scrittore. Era regista di film di enorme successo. Inoltre, nel 1974, aveva cominciato una collaborazione – destinata ad entrare negli annali – con il «Corriere della Sera» di Piero Ottone. Mi riferisco ai famosi e, secondo me, bellissimi scritti corsari. Da quelle pagine, in una serie sempre più fitta di articoli, Pasolini affrontò a pieno petto e con uno scandalo inedito persino per lui tutti i temi più attuali del suo tempo, da un angolo visuale e con un approccio che resta memorabile, ma che soprattutto lo aveva emarginato in qualità di intellettuale. D’improvviso, Pasolini aveva un pubblico tanto numeroso quanto scarsa era la simpatia dei colleghi, della critica più paludata. In meno di due anni Pasolini scrive in realtà di una cosa soltanto: il mutamento antropologico degli italiani. Una trasformazione millenaria, data dal consumismo, che svuota di potere le istituzioni fino ad allora imperanti, cioè la estensione pragmatica della Democrazia Cristiana e il serbatoio ideologico-morale rappresentato dal Vaticano. Una mutazione che sta inquinando quel mondo che lui aveva sempre amato profondamente e che non riconosce più, cioè quello del sottoproletariato. Una mutazione capace di trasporre formalisticamente i valori e gli atteggiamenti della borghesia, ma solo nei suoi valori estetici, divenuti improvvisamente doverosi, pena la crisi di un’identità sempre più fragile.
Pasolini, insomma, non dice nulla che i Francofortesi o Guy Debord non avessero già detto, ma una certo provincialismo della cultura italiana e la vetrina del «Corriere», oltre al fatto che Pasolini porta a conseguenze inedite queste riflessioni, fanno sì che scoppi una polemica ferocissima contro di lui. Pasolini si era detto contrario all’aborto, al divorzio, aveva seriamente proposto – anche se poi smentì – l’abolizione della Tv di Stato e della scuola dell’obbligo, insomma… diciamola tutta: stava andando da tutta un’altra parte rispetto a quanto diceva e voleva il caro Partito Comunista Italiano. Ora, se c’è un avvenimento di quel periodo altrettanto importante nella storia del Paese quanto la morte di Pasolini, questo è sicuramente il “compromesso storico” che si profilava all’orizzonte dopo il risultato eccezionale delle elezioni di quell’anno. Ancora oggi è il punto massimo di consenso alla sinistra mai raggiunto nel Paese. Il Pci raggiunse il 33% e sfiorò la vittoria. Pasolini, in tale contesto, con la tensione che si può immaginare, si prese la briga di spiegare come non c’era nulla da festeggiare perché se anche avesse vinto il Pci, sostanzialmente, non sarebbe cambiato nulla. Immaginate cosa si tirò dietro.
Ma c’era un motivo.
Da quella pagine – e con un parallelismo mostruoso con qualcosa che avremmo conosciuto molti anni più tardi e che non ebbe il tempo di concludere, cioè «Petrolio» – Pasolini stava realizzando quello che rimane l’unico tentativo di super-romanzo, di epica del Potere in Italia. In Italia in quegli anni, c’era una moda culturale che aveva fatto molte vittime: la moda della “morte del romanzo”. Chi scriveva romanzi, classicamente intesi, era un traditore. Lo era stata Elsa Morante l’estate precedente con «La Storia», lo era stato ma per ragioni opposte Stefano D’Arrigo in quello stesso anno e due anni prima il suicidio di Guido Morselli aveva lanciato una forte accusa a quella società letteraria e ai suoi rituali autoconservativi. Ebbene, se avesse un valore, e secondo me ce l’ha, la regola secondo la quale la quantità di Storia prodotta da un Paese determina anche la produzione di romanzi – cosa che giustificherebbe lo stato pietoso della narrativa italiana contemporanea almeno fino alla consapevolezza emersa dal pamphlet dei Wu Ming “New Italian Epic” – allora dovremmo chiederci come fosse possibile che in un Paese che aveva vissuto, solo negli ultimi anni, il caso Mattei, l’Italicus, Piazza Fontana, tanto per dire i più noti, nessuno scrittore avesse inserito questi elementi nelle loro opere. Credo che Pasolini se ne accorse, e decise – profetizzandolo nel romanzo delle stragi (con quel suo reiterante “Io so”) – di provare l’impresa non della ennesima descrizione del Potere, bensì della Visione del Potere. Pasolini cominciò a guardare il Potere. E quello che vide, in grazia della sua sensibilità, fu tanto doloroso che ne trasse una sorta di inebriamento, sofferto, altamente consapevole, da cui non uscì più. E che contribuì al suo isolamento.
Oggi, a tanti anni di distanza, Pasolini ci parla ancora e ammonisce su quel che ci è accaduto, sulla mutazione umana dovuta al consumismo. Sullo «sviluppo senza progresso» che rappresenta ancora oggi una formula efficace per dare un nome allo stato deprimente della nostra società. E la sua morte è perfetta metafora di come una società sa essere criminale nei confronti della mente migliore del suo tempo.