Come forse i più assidui frequentatori di Marte avranno capito, uno degli argomenti che più mi stanno a cuore, e che non a caso fa parte anche gli scopi primordiali di questo blog, è l'indipendenza del pensiero, la capacità dell'individuo di porsi domande, di non dare niente per scontato, in una parola di dubitare. E nell'età dell'informazione, questo è tanto più un argomento scottante, quanto più è difficile discriminare la realtà dalla finzione e la verità dalla manipolazione, soprattutto in considerazione del fatto che la conoscenza della verità è sempre soggetta a un determinato grado di approssimazione e che l'uomo (ma anche il marziano) tende a esercitare una pigrizia innata che lo porta a credere a priori, piuttosto che a mettere in discussione.
Così, partendo dall'affermazione che ho fatto in un commento, ovvero che i media spesso giustificano i loro palinsesti dicendo di ammanire quello che gli spettatori vogliono, ma senza dimenticare anche che i media sono in grado di modificare i gusti degli spettatori e dunque di decidere che cosa gli spettatori devono volere, e riferendomi genericamente agli ultimi post che hanno proprio ruotato intorno al ruolo dei media nella rappresentazione di alcune recenti vicende di cronaca italiana, vorrei arrampicarmi su una montagna e guardare la faccenda da una posizione sopraelevata, dare insomma uno sguardo al fenomeno nel suo insieme. E per farlo mi ci vorrà qualche post. Spero avrete voglia di seguirmi in questo percorso.
Partiamo dunque con la domanda di base: ritenete di essere liberi di pensare? Pensate davvero di essere in grado di compiere scelte in maniera completamente autonoma? Benché possiate non essere d’accordo con me, lasciate che vi dica che molto probabilmente la risposta a entrambe le domande è No. Gli ultimi cinquant’anni, ma in particolare gli ultimi venti, hanno visto una crescita esponenziale dei metodi di diffusione dell’informazione. Senza entrare nel merito specifico della loro qualità, i media si sono espansi per quantità e velocità, diventando sempre più invasivi e pervasivi. Televisione, editoria, telefonia cellulare, Internet, tutto ciò che fa cultura e comunicazione contribuisce a creare e a diffondere - consapevolmente o meno - dei nuclei di pensiero e di opinione che si insinuano nella mente delle persone e si replicano, contagiando altre menti come vere e proprie epidemie di idee. Ma non basta. Essi sono capaci di evolversi e modellare i vostri pensieri e le vostre azioni come creta senza che ve ne accorgiate. Credete che stia esagerando?
.Di cosa stiamo parlando
Il primo a introdurre il concetto di “meme” fu Richard Dawkins nel suo celebre Il gene egoista (1976, Mondadori). “Meme” è l’abbreviazione di “mimeme” dalla radice greca che significa imitazione e per il celebre biologo costituisce l’analogo culturale di quello che per la biologia è il gene. Esiste infatti una potente analogia tra la trasmissione e l’evoluzione dei geni e la trasmissione e l’evoluzione dei memi. Il DNA, ovvero il gene, è la molecola replicante che, partendo da una sorta di brodo primordiale, ha prevalso negli organismi biologici, mentre il meme è “l’unità base della trasmissione culturale o imitazione”. Per Dawkins un meme può essere “un motivetto, una frase a effetto, i vestiti alla moda, forme di vasellame o di arcate”. Nel corso degli anni a venire, durante i quali il concetto di meme è stato studiato e si è sviluppato, sono poi sorte altre definizioni, come quella psicologica di Henry Plotkin secondo cui “un meme è l’unità dell’eredità culturale analogo al gene, [...] la rappresentazione interna della conoscenza”, o quella di Richard Brodie in base alla quale “il meme è un’unità di informazione in una mente, la cui esistenza influenza eventi tali che più copie di esse vengono create in altre menti”.
Come ciò possa avvenire, lo vedremo a partire dal prossimo post.
/continua