Magazine Cultura

“La merce” di Mario Massimo

Creato il 07 gennaio 2012 da Viadellebelledonne

“La merce” di Mario Massimo

   Venne l’ultimo giorno, Olivier dovette partire. Non erano valse a niente le recriminazioni, le suppliche, gli intenerimenti, le crisi di pianto, e l’estrema risorsa dello svenimento: le tattiche, insomma, che aveva messo in campo una dietro l’altra sua moglie Élodie, con premeditazione, ore prima, anche se al momento giusto abdicando disastrosamente all’istinto, in quelle ultime due settimane da che le aveva detto della Louisiana.

Alle sue domande, via via meno indispettite e più sconfortate, e implo-ranti, se era proprio necessario che andasse lui, se non ci poteva mandare proprio nessun altro, suo padre, Olivier aveva negato, sicuro.

Quello di recuperare quei crediti dal marchese Hubert de Flétraigues, volle che lei capisse, era un compito troppo delicato, per farlo eseguire a qualche altro socio della banca, al di fuori della parentela.

-E del resto, è tempo che incominci pure io ad avere a che fare col mondo, con la vita com’è veramente-. Più o meno, quello che anche suo padre gli aveva bofonchiato contro, ad affibbiargli il mandato, avvolgen-dosi in una boccata azzurrigna e pestilenziale del fumo di pipa che a Olivier, fino da bambino, spezzava ogni volta il respiro, aggravando così l’imbarazzo già grande che gli comunicava suo padre quando gli teneva un discorso serio, e se poi l’argomento era lui.

Era stata a un passo, Élodie, dal discendere fino alla sincerità petulante della confessione, su tutto ciò che le toccava mandar giù, in quei tre mesi dopo esser venuta da moglie dentro la sua casa – quella gran casa buia, tutta corridoi e anditi e scale, e stanzoni col soffitto alto e i finestroni di cui s’intristiva la luce anche in pieno giorno, impossibili da far riscaldare per quanto avvampassero, insoffribilmente sul viso, i camini dalle enormi cappe all’uso antico – e fra quelli della sua famiglia, severi, duri, taciturni, murati dentro un’etichetta più astrusa e cervellotica di quella spagnola anche per il semplice ordine in cui si veniva serviti a pranzo e toccava dare il primo morso ad ogni portata.

E la sola cosa che l’aveva aiutata a mandar giù tutto era che, in fondo a tutto, la sera, dopo la lettura fatta ad alta voce dei libri non disapprovati dal parroco, le orazioni, e il cerimoniale di tavola per la cena, e per la buona notte, nessuno più glielo poteva levare, il suo sacrosanto diritto di stare con lui, Olivier e lei soli, sfilato guardinfante e corsetto a guêpière, e i diversi strati di sottane: con niente addosso addirittura, come preten-deva Oliver quando il desiderio gli alzava quel suo buffo arnese riottoso.

Quello il cui assalto Élodie cominciava a sentire, ora, già meno brutale; già un poco più desiderato, aspettato, lo spingersi fino alla parte di lei più aggredibile da quel divampare segreto, vorticosamente.

Lo scopo stesso dell’affaticarsi serrato e irruente del marito su lei, fino al gemito con cui si arrestava, di colpo, imperlato tutto di sudore, ansi-mando, e poi le rimaneva di fianco ad inabissarsi nel sonno, infantile, esausto, beato, cioè che le attecchisse nel grembo una nuova vita – la sola cosa per cui il matrimonio è voluto da Nostro Signore, a sentire l’omelia del canonico Amiot per le loro nozze – ora cominciava a sembrarle, con tutto il rispetto per Nostro Signore, più estraneo, e come posticcio, in raffronto con la intensità sfolgorante delle sue reazioni al lasciarsi pren-dere da lui, al contatto della loro pelle e del ruvido delle guance di lui sul suo seno.

Sicché proprio ora, che appena stava incominciando ad assaporare quel lato dell’essere donna ed aver marito, doverne fare a meno, così brusca-mente, e per tutto il tempo che avrebbe richiesto quella scarrozzata in Louisiana, e il motivo che c’era per farla, a Élodie risultava crudele come una punizione, più aspra quanto più immeritata.

Per giunta, prima che passassero intere quattro settimane da che era partito Olivier, non ci fu più il minimo dubbio, che Nostro Signore, in un modo o nell’altro, lo avesse ottenuto, il suo scopo.

Quando gli arrivò la notizia, dopo che la lettera aveva fatto quasi il giro completo di Nova Orléans, da un albergo all’altro, macchiandosi, stro-picciandosi, rimanendo priva di un orlo, Olivier già da alcuni giorni viveva nella piantagione sul fiume verso Baton Rouge, ospitato dal marchese Hubert e costretto a sorbirsi la sua conversazione effusiva e inacidita, e benché avesse fatto progressi molto incoraggianti, non era però ancora giunto allo scopo della sua missione.

Al marchese Hubert, per esempio, era stato subito simpatico: ancora prima che lui arrivasse a spiegargli il motivo della sua venuta, aveva insistito perché non si parlasse di affari senza di aver fatto due chiac-chiere per legare meglio, e bevuto – préalablement – qualche buon bic-chiere mangiando un boccone insieme, e aveva troncato gli accenni del suo cerimonioso diniego inviando immediatamente uno schiavo negro a Nuova Orléans, al suo albergo, a disdirgli la stanza e portargli i bagagli alla villa.

Poi, passava ore con lui, non soltanto quelle del pranzo, della cena, cui sovrintendeva un austero maggiordomo dalla impenetrabile faccia a gros-se grinze, animato solo per i gesti incisivi e tirannici con cui dirigeva gli schiavi negri ancora un pochino maldestri, e come a disagio, coi loro corpi poderosi dentro le livree salottiere e, su lini e scolli di pizzo, quelle facce in cui lampeggiava il candore delle sclere contro la compattezza notturna della pelle, dei capelli crespi e cortissimi, quasi non distinti dal cranio.

No: con Olivier, il marchese de Flétraigues rimaneva nella veranda sul fiume pomeriggi interi, a discutere di filosofia, di politica, della inesistenza dell’anima e di Dio – giacché, se si ammette che tutto ciò che accade al mondo è voluto da una Divinità, come ammettere che la sofferenza, il dolore, la stessa incapacità di obbedire ai comandamenti per la fragilità della carne, ci vengano imposti da un Dio che ci vuole bene? – e che se non ci fossero state quelle poche cose per cui meritava davvero venire al mondo, le donne, certo, quel bocciolo dolcissimo che hanno solo loro e in cui non ti stanchi di perderti, di annullarti, e il vino, e la musica, come quella nuova di Mozart che gli era arrivata da poco, ecco: senza questo, la vita non sarebbe stata davvero altro che una beffa feroce.

-Se poi non vogliamo pensare – e ne dissentiva al momento stesso in cui postulava di ammetterlo, con una pur dubitosa inflessione irridente – che si viene al mondo a soffrire, e a non soddisfare le voglie e a resistere alle tentazioni per non guadagnarci l’inferno dopo esser morti: soffrire è una cosa inutile, stupida, cui non si può dare alcun senso, e per non volerlo accettare si sono imbastite da secoli costruzioni immense di inganni, di mistificazioni solenni…

Lo ascoltava, Olivier, per dovere, per educazione, lottando con la sonnolenza invincibile che gli derivava dai pranzi sempre opulenti in maniera così plumbea e con l’umido greve e appiccicoso del caldo di cui si intrideva la stoffa della sua camicia, sperando di poter portare il discorso, prima o dopo, sulla questione che gli stava a cuore: suo padre gli aveva spiegato che gli uomini vanno manovrati a dovere, con cautela, usando le frasi giuste per portarli a far loro quello che tu vuoi che ti facciano, e un paio di volte Olivier aveva già strappato al marchese Hubert qualche vaga ammissione circa i galantuomini, e il tenere fede alla parola, ma niente di più sostanzioso di questo.

Tanto più, perciò, fu stupito quando, la mattina del ventiseiesimo giorno da che si trovava alla villa, Hubert de Flétraigues lo fece chiamare e senz’altro, senza mezzi termini o divagazioni su Dio e il significato del vivere, gli propose:

-Qua, liquidità non ce n’è, né ce ne sarà per un bel pezzo: non c’è dunque nessun modo, mon vieux, per tenere fede agli impegni presi con il vostro riverito signor padre e la banca, fuorché cedervi, a saldo d’ogni altro debito residuo, uno dei miei schiavi. Fra i meglio valutati: in salute, robusto, solido anche se appena sopra i quindici anni; e anche per bellezza d’aspetto, una vera rarità!

E per fargli toccare con mano, proprio giudicare coi suoi occhi, lo aveva condotto attraverso tutta la piantagione, fin dove erano i capanni con i dormitori e, per strada, perché valutasse anche meglio quanto era speciale l’offerta che gli aveva fatto, si spinse fino a confidargli, abbassando il tono e con una punta – perché, poi? – di falsa modestia, che, per verità, se il ragazzo era così bello, il motivo era che la madre era stata una volta fra le tisanières.

-È così che, qua in Louisiana, chiamiamo quelle schiave più piacenti che salgono dai loro padroni di notte, se non ce le fanno a dormire per il mal di ventre, a portare una buona tazza di quei loro infusi di erbe… e quantunque, certo, non ci sia da farsi illusioni in materia di virtù, con le rappresentanti di quella razza, è senz’altro più che plausibile, che proprio una notte con colui che vi sta parlando, mon vieux, glielo abbia fatto, alla piccola Dadou, il regalo di quel bastardello mulatto.

Qui, Oliver non seppe tenersi, checché ne dicesse suo padre circa la cautela da usare quando si è in affari e se non si ha il sangue freddo di non sbottonarsi mai troppo non si va lontano, e gli chiese, con incredu-lità, con ribrezzo quasi:

-Ma davvero, monseigneur, non sentite niente, a pensare che questo ragazzo vi può esser figlio? E potete offrirmelo, adesso, come fosse un sacco di pepe o qualsiasi altra merce! Mentre invece il ragazzo è, in certa misura, il vostro medesimo corpo, la stessa esistenza vostra che si pro-lunga oltre il limite dell’annientamento totale, della morte, bruta, defini-tiva, se l’anima, come abbiamo ammesso nei giorni passati, non è che la somma dei sensi, di cervello e nervi, e perciò si estingue con loro…

Hubert de Flétraigues lo interruppe, e gli si illividiva nel viso un barlu-me di acredine:

-Ecco, se ciascuno vincesse questo miserevole impulso a perpetuarsi  che è, poi, quello che ha prodotto nei secoli la superfetazione dell’anima, il peccato, l’impossibilità di restare puri per avere un inferno in cui essere messi a espiare per l’eternità, si potrebbe forse sperare di avere spezzato il ripetersi di questa condanna ad esistere a cui anche noi siamo stati inchiodati; a dover cercare le donne e il loro bocciolo, e il vino, o magari Mozart, per avere almeno qualche ora, dei minuti, almeno, in cui non ci sentiamo azzannare dalla inconsistenza di tutto ciò che ci sembrava, in principio, di desiderare: un amore prima irraggiungibile e adesso senza più mistero, o il potere di farci ubbidire tenuto con tutta la forza dei polsi, e la disumanità, che ci vuole, o ancora il denaro da dilapidare per cose di cui alla lunga sappiamo che ci stancheremo.

Un istante, a Olivier, nel pensiero – come di una traccia lasciata nel fuggire, a misfatto compiuto – tornò a incidersi la scrittura sghemba e arricciata con cui Élodie gli comunicava la maternità; ma se ne distolse, voltosi a guardare il ragazzo che, udendo il suo nome urlato, un assurdo nome mitologico greco, gli era uscito avanti, e gli calamitava, più ancora che lui non volesse, la vista.

Era per il profilarsi aggraziato e selvaggio insieme del viso? Il capriccio di chissà quale impasto di umano seme che gli aveva dato l’azzurro d’oc-chi di una qualche ava normanna, sperso, limpidissimo, in mezzo alla scura ambra della pelle? O il turgore appena protruso delle labbra cupe sui denti smaglianti, il compenetrarsi statuario di snellezza e forza nella muscolatura coperta alla meno peggio con un camiciotto e due corte braghe in tela grezza e sdrucita?

Forse, ancora più, per l’atteggiamento, indolente e come impudico, con cui si lasciava osservare, e gli sorrideva, guardandolo, dritto, non da sottomesso, negli occhi.

Ciò che ad Olivier fu evidente, già solo dopo dei primissimi istanti, era la volontà – di nient’altro mai avvertita, prima, con tanta impellenza! – di fargli dispetto, al marchese de Flétraigues, di reagire al suo disanimato cinismo, di prendersi cura del ragazzo, educarlo, insegnargli tutto, strap-parlo alla degradazione di quel suo destino da strumento umano, ridotto a venire usato da uno che avrebbe potuto trovarsi al suo posto e non differiva da lui per nessuna delle componenti di un uomo.

Questo fu che, quando riprese, il marchese Hubert, il suo tono mer-cantesco di compiacimento, per chiedergli se era o no, il ragazzo, come gli aveva detto, una cosa rara (“che, a venderlo, ci guadagnerete magari più di tutta la somma del debito e degli interessi”, e ammiccava, per la sod-disfazione), fece abbassare gli occhi, ad Olivier, e rispondere subito di sì, che perfezionasse il contratto, il signor marchese: prima che poteva; anzi gli domandò, per dar meglio l’impressione di essere convinto, chi era la persona, a Nuova Orléans o dove che fosse, a cui occorreva rivolgersi per piazzarlo con maggior vantaggio.

Così, a precipizio, quel giorno stesso Olivier si lasciò alle spalle la villa e il suo bianco colonnato e la piantagione, portandosi il ragazzo appresso, obbediente…

E come, se no? Mansueto, muto: ma, visibilmente, interdetto per il trattamento inatteso che il padrone nuovo gli usava, fuori da ogni norma abituale del comportamento corrente fra padroni e servi, con tutto quel sermoneggiare, durante l’intero viaggio, su eguaglianza e diseguaglianza e sull’essere umano e i diritti e la società e la natura.

Un comportamento, fra l’altro, per cui si dimostrò insufficiente anche la spiegazione che gli era venuta più pronta, da fargli accennare, all’al-bergo, quando ne divise la stanza, e si tolse brache e camiciotto per andare a letto, ad entrargli sotto le lenzuola come aveva fatto le altre volte che il signor marchese chiamava a vederlo qualche invitato impor-tante, al cui fianco doveva dormire la notte: il padrone nuovo, invece, arrossendo, lo aveva fermato e, in gran fretta, anche se con un mezzo sorriso, gli aveva detto no, che si sbagliava, quel genere di divertimenti non era fatto per piacergli.

Ad ogni buon conto, non stette poi ad aspettare di aver capito per filo e per segno ogni cosa: svegliatosi, come d’abitudine, all’alba, e trovatosi invece per la prima volta, da che ricordava, slegato, senza la catena alla gamba con cui li assicuravano ognuno alla propria branda, non fece altro che dileguarsi, al più presto e nel più assoluto silenzio, per non risvegliare quell’altro che, smaniosamente, nel sonno, continuava a dire qualcosa, smozzicata, roca, affannata, per giustificarsi, a suo padre.

 da “Dedalus” puntoacapo editrice 2011

“La merce” di Mario Massimo

Mario Massimo è nato nel 1947 a Foggia, dove vive; ha insegnato nei licei. Ha pubblicato “Chronion”, Il Candelaio, Firenze, 1987 (poesia); “In fondo al giorno”, ibidem, 1987 (poesia); “La morte data” Manni, San Cesario di Lecce, 2009, (narrativa).


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Dossier Paperblog

Magazines