La meritocrazia e la rimozione del concetto di equità
La questione del merito è diventata centrale nel dibattito politico-elettorale del nostro Paese. Creare una nuova sinistra non richiede solo di «rottamare» alcuni dei politici come vorrebbero in molti, ma anche alcune vecchie idee. Il segretario del Partito Democratico ha risposto “va bene più meritocrazia, ma anche più eguaglianza”.
Quanti di noi sono disposti ad accettare una ‘società dei migliori’ che ci escluda? Cosa accade quando qualcuno ha i requisiti minimi, ma ci viene preferito dal valutatore per qualche criterio che non comprendiamo o, peggio, non condividiamo (e spesso non condividiamo proprio perché ci danneggia)? Siamo disposti ad accettare il giudizio sul merito anche quando quel giudizio ci esclude?
Siamo tutti concordi nel volere una società basata sul merito, ma – oltre gli slogan – c’è il rischio che, in nome di un merito retorico e salvifico, invocato ma non declinato, finiremo per costruire una società di tutti uguali e di inevitabili perdenti che ‘non-se-lo-meritano’, smarrendo in noi, e nei nostri figli, la scoperta dell’originalità, della diversità, dei talenti e delle inclinazioni.
Si pone il problema di individuare criteri di valutazione del merito condivisibili e condivisi (anche quando si perde).
Appare subito evidente come ogni sistema di corruzione, da quello clientelare su piccola scala a quello di stampo mafioso, va in aperta contraddizione con l’idea di società meritocratica. Anche ove vi siano delle ottime condizioni di mobilità sociale, la presenza di una rete criminale (molto spesso strutturale e istituzionalizzata) vanifica ogni tentativo di perseguire il “merito”.
Nel nome del “merito”, non bisogna tuttavia giustificare un sistema economico che – controllato da pochi vertici, spesso i padri di ‘chi ce l’ha fatta’ – non ha intenzione alcuna di creare le basi affinché ciascun individuo venga assorbito nel mercato del lavoro e ricopra il ruolo che maggiormente si confà alla propria attitudine e capacità. Tutti gli individui devono essere messi in condizioni di “equità” nell’individuazione dei soggetti meritevoli. L’equità sociale permette a chiunque, fino di notaio o di operaio, di proporsi per lo stesso posto di lavoro. Non esiste il riconoscimento del merito se non c’è equità, permettendo anche alle classi meno abbienti di “istruire” i propri figli. Senza questo presupposto, la meritocrazia sarà un gioco delle parti ricche della società. L’affossamento dei finanziamenti alla cultura e l’attentato al sistema di istruzione pubblica generano l’esistenza di un monopolio con barriere d’accesso al merito.
Come è organizzata la società meritocratica? In classi sociali. Peggio: in caste. Da una parte stanno intelligenti, arroganti, competitivi; dall’altra stupidi, demoralizzati, umiliati. I valori che la reggono? Competitività e aggressività. A svantaggio di gentilezza, coraggio, creatività, sensibilità, simpatia, tolleranza, solidarietà. La posizione meritocratica condurrebbe addirittura a matrimoni tra persone geniali con un alto quoziente intellettivo.
La coesione sociale di una Nazione è ampiamente determinata dalla equa distribuzione – anche direttamente o indirettamente monetaria – della sua ricchezza. Equità non significa egualitarismo, ma contemporanea capacità di prevenire e sostenere i bisogni, da un lato, e di premiare i meriti, dall’altro. Ogni distribuzione presuppone inesorabilmente una adeguata produzione di ricchezza. Il merito è dunque la risultante di due componenti: il talento che ciascuno ottiene dalla lotteria naturale e l’impegno profuso dal soggetto nello svolgimento di attività o mansioni varie.
Ben diverso è il giudizio nei confronti della meritorietà che è il principio di organizzazione sociale basato sul “criterio del merito” e non già del “potere del merito”. È certo giusto che chi merita di più ottenga di più, ma non tanto da porlo in grado di disegnare regole del gioco – economico e/o politico – capaci poi di avvantaggiarlo. Si tratta cioè di evitare che le differenze di ricchezza associata al merito si traducano in differenze di potere decisionale.
Prendiamo l’istruzione. Se dobbiamo selezionare i migliori dobbiamo basarci sul titolo di studio e sul voto. Ma quando cresce l’offerta di lavoratori con lo stesso titolo di studio, la domanda dovrà selezionare sulla base di titoli aggiuntivi, generando inflazione da titoli. Un maggior grado di istruzione cresce in valore se decresce il numero di quelli che lo posseggono e diventa un ‘bene posizionale’. La corsa ai titoli di studio genera ‘scarsità sociale’: più sono i titoli mediamente posseduti da una popolazione di aspiranti candidati a un ruolo, minore è la chance di ottenere il ruolo cui si aspira. È qui che la questione del merito cessa di essere facile retorica e diventa un problema serio di meccanismo di selezione.
Quella contro i concorsi universitari truccati può sembrare una battaglia di retroguardia. Alcuni sostengono che il vero problema sia la cronica mancanza di finanziamento della ricerca scientifica e che sia quindi fuorviante sollevare uno scandalo ogni volta che si assiste alla manipolazione di un concorso, perché il clamore distrae da cause più importanti per cui lottare.
È vero, per rilanciare l’università ci vogliono più risorse. Ma i contribuenti non sono disposti a finanziare una istituzione che ancora troppo spesso serve a sistemare parenti e amici, piuttosto che a produrre ricerca per il benessere e lo sviluppo del paese. La trasparenza dei concorsi rischia di peggiorare con la riforma Gelmini.
Permettendosi di rinviare l’ingresso nel lavoro a forza di sommare titoli si alimenta diseguaglianza e l’equazione aristocrazia-plutocrazia; viene meno l’offerta di lavoratori per occupazioni con ‘conoscenza tacita’ non misurabile (specie nei servizi, nell’artigianato, nei beni culturali ecc.); la concorrenza per il merito genera standardizzazione dei percorsi formativi e dei curriculum, un esercito di uguali in concorrenza.
L’apartheid del lavoro, oltre a essere ingiusto, ha distrutto la produttività, perché il precario bravo raramente riceve dalle imprese gli investimenti in formazione e in sviluppo professionale, che alla fine ci rimettono in produttività. E l’immettere ogni anno molto meno studenti eccellenti (un terzo) delle società nordeuropee con scuole capaci di seguire i più lenti ma anche di valorizzare i più bravi, non creerà la classe dirigente per fare ripartire l’economia del nuovo millennio.
La competizione va bene per i vertici della politica e della economia, ma se estesa alle masse dei lavoratori e degli studenti può portare, per esempio, a licenziamenti di massa e alla perdita del «diritto allo studio». Ne deriva che l’unico modo efficace per ridurre la diseguaglianza è quello di ridistribuire la ricchezza dai ricchi ai poveri.
Obiettivo condiviso è quello di sostenere, anche attraverso la riforma degli assetti contrattuali, lo sviluppo economico, la crescita della occupazione e l’incremento delle retribuzioni. È certo giusto che chi merita di più ottenga di più, ma non tanto da porlo in grado di disegnare regole del gioco – economico e/o politico – capaci poi di avvantaggiarlo. Si tratta cioè di evitare che le differenze di ricchezza associata al merito si traducano in differenze di potere decisionale. Non è bensì accettabile che tutti gli uomini vengano trattati egualmente – come vorrebbe l’egualitarismo. Tutti però devono essere trattati come eguali, il che è quanto la meritocrazia non garantisce affatto. In altro modo, mentre la meritrocrazia invoca il principio del merito nella fase della distribuzione della ricchezza, cioè post-factum, la meritorietà si perita di applicarlo anche nella fase della produzione della ricchezza, mirando ad assicurare l’eguaglianza delle capacità. Il riconoscimento della meritorietà e dell’equità sociale in tutti i settori del lavoro sarà essenziale per governare un Paese fermo da 25 anni.