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La metafisica del desiderio e la prospettiva del discanto: cenni sull’estinzione della specie umana

Creato il 01 febbraio 2016 da Wsf

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Chiariamoci sin da subito: la mia ricerca è inutile, quindi, se non sei disposto a interfacciarti con l’inanità di ogni singola parola che segue, ti consiglio di cimentarti in qualcosa di produttivo, come servire la patria, laurearti in ingegneria meccanica, o, se sei un tipo indolente, basta aggiornare il tuo profilo Facebook e contare i like fino a ora di cena.

Perché la mia ricerca è inutile? Anzitutto, è bene considerare che quando si parla di poesia, eccetto la poesia stessa (ma anche qui vertono parecchie perplessità), si sta inesorabilmente ipertrofizzando il proprio ego, e dunque, io vi consiglio di fare spallucce e rigare dritto. Se c’è il sole, fatevi un giro. Se fa brutto, invece, potete arrovellarvi le cervella con il problema ontologico (che fortuna!), ma lasciate perdere Kant o Heidegger. Per carità. Dicevamo, ah si, la mia ricerca è inutile. E’ inutile perché verte sui principi dell’estinzione della razza umana, cerca di comprendere la metafisica del desiderio e la prospettiva del discanto.

Caro lettore, vorrei poterti dire qualcosa sull’abbandono, sui relitti, su cosa li accomuna alle costellazioni. Realizzare quanto sia impercettibile la distanza tra l’infinitamente vicino e l’infinitamente lontano. La chiave sta, come in poesia, nella inaccessibilità. Mi piacerebbe dire cos’è la solitudine in poesia, descrivere la sua potenza mistica e rivelatrice. Ma andiamo per gradi. Credo che nella poesia e nella solitudine ci sia sempre una danza siderale con la morte, e se non sei disposto a guardare l’armonia di questa retroversione del movimento, meglio lasciar perdere.

Nella poesia della solitudine esiste un certo disconoscimento del civile. Ricordate cosa disse Ungaretti a Pasolini? Scrivere significa, tra le altre cose, seguire le leggi della natura, non le leggi dell’uomo: la civiltà – che è un atto di sopraffazione dell’uomo sulla natura – è di per sé, un atto contro natura. Il poeta vero, dunque, è un rivoluzionario (anche se questo lo hanno detto in tanti), perché il suo raggio d’azione è una cornucopia di follia antisociale. Alfonso Guida, mio fedele amico, nonché eccelso poeta, una volta mi disse e cito “se vuoi scrivere, ma scrivere veramente, devi accettare l’idea di non poter sfamare le persone che ami”. Ora voi penserete che sto per attaccarvi il pippone sul fatto che “carmina non dant panem” e quindi, onde fugare questo imbarazzo, non vado oltre. Dico solo che la dimensione della civiltà si risolve nell’idiosincrasia dei numeri.

“Il vuoto è il solo a prendere il posto
di se stesso. Non c’è contraddizione
tra quello che t’iniettano e ciò che ti
dicono. Non nascondono niente. È un
divieto. Il malato deve sapere.
Deve poter trasfigurare quanto
non conosce.”

“Così, il sussulto. Piango
su una panca. L’olmo è vuoto. Le donne
se ne sono andate. È un bene, è un male. Tu,
solitudine, conferma te stessa:
Madre, continua a stare anche in me sola.”

(due segmenti estratti da “A ogni passo del sempre” di Alfonso Guida, Aragno editore, 2013)

Vedete, quando si parla di poesia della solitudine, non si parla di silenzi, ma di vuoti. In un mio testo inedito scrivo proprio questo e cioè che è sempre un discorso sul venire meno delle cose, (le maledette parole), “del rumore che fa l’acqua mentre / scola in un reticolo di nodi e feritoie”. Capire che la vera condanna è proprio questa, che “non c’è mai stato veramente il tempo di chiedere perdono”. Vi spiego meglio, ma sappiate che io non vado di fioretto. Preferisco la sciabola perché detesto i figli di puttana che fanno i diplomatici. I mediatori. Ah, che rabbia! Torniamo a noi. Esiste un momento in cui siamo costretti a guardare i numeri. Appurato che quando si parla di numeri si fa menzione della sfera sociale della persona, cosa s’intende per numeri lo lascio decidere a voi, a seconda delle contingenze, ma – più in generale – credo che esista un momento in cui il dato qualitativo si deve per forza di cose confrontare con quello quantitativo (a tal proposito, yin e yang, spirito e materia, base per altezza e altre stronzate dicotomiche del medesimo tenore).

Diciamocela tutta: la cosa, messa così, può stare anche un po’ sui coglioni, ed è facile sfociare nel turpiloquio quando si scrive di roba border line. Ma che belli i discorsi volgari e, ditemi, che aberrazione si nasconde dietro l’educazione civile? I numeri sono nemici della poesia della solitudine perché il poeta è scaraventato dalle stelle in un coacervo di boria, presunzione e inettitudine.

Fermo tutto quanto innanzi, la mia domanda è la seguente: il critico riesce a comprendere questa anomala dimensione dello spirito, che è di per sé manifesto di inaccessibilità? Io non so rispondere, credetemi, ma ritengo che, come in tutte le nefandezze dell’umano, anche la “repubblica delle lettere” è affetta da una certa morbosità politica nonché, annichilimento sociale. Pertanto, seguendo questa falsariga non posso esimermi dal citare un altro grande poeta, ingiustamente sottovalutato. Sto parlando di Salvatore Toma (lo approfondiremo, ndr) che, in materia di critica scriveva “Caro erudito / civilizzato rincoglionito”, (parafrasando) devi svegliarti dal tuo torpore, non devi perdere tempo in convegni tossici deputati alla altrui demolizione.

Per completezza espositiva, riporto qui un Toma che a mio avviso si supera quando scrive: “E’ da anni che vado a diarrea… / è da anni che al bagno/ non faccio un bel stronzo colossale/ di quelli che ti senti realizzato/ eppure di stronzi ne conosco / ne sono normalmente circondato”. Concludendo, mi servo sempre di questo poeta per farvi dono di quello che, secondo intenzioni, definirei il primo principio di estinzione della specie umana.

Tratto dal “Canzoniere della morte” di Salvatore Toma, Einaudi, 1999:

Quando sarò morto
che non vi venga in mente
di mettere manifesti:
morto serenamente
o dopo lunga sofferenza
o peggio ancora in grazia di dio.
Io sono morto
per la vostra presenza.


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