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La metafisica in epoca moderna

Creato il 26 settembre 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Immanuel_Kant_3di Michele Marsonet. Gli empiristi e Kant rifiutano sia la concezione classica (aristotelica) sia quella razionalista della metafisica, sostenendo che entrambe non tengono nel dovuto conto i limiti della conoscenza umana. E’ celebre il passo in cui David Hume propone di fare a meno una volta per tutte della metafisica: “Quando scorriamo i1 libri di una biblioteca, di che cosa dobbiamo disfarci? Se prendiamo in mano qualche volume di teologia o di metafisica scolastica, ad esempio, chiediamoci: ‘Contiene forse dei ragionamenti astratti intorno alla quantità o al numero?’. No. ‘Contiene dei ragionamenti basati sull’esperienza e relativi a dati di fatto o all’esistenza delle cose?’. No. Allora diamolo alle fiamme, giacché esso non può contenere nient’altro che sofisticheria e inganno”.

Tuttavia Kant è meno drastico. A suo avviso si poteva ancora parlare legittimamente di conoscenza metafisica, ma il suo scopo era delineare le strutture più generali mediante cui noi categorizziamo la realtà. Vedremo in seguito che tale accezione di metafisica continua a essere popolare ai nostri giorni. Prima mette conto notare che, fin dalle prime pagine della Critica della ragione pura, il filosofo tedesco pone degli interrogativi precisi circa le scienze. La questione fondamentale: “com’è possibile la metafisica come scienza?” si traduce in due domande a carattere gnoseologico: “com’è possibile una matematica pura?”; e “com’è possibile una fisica pura?”. Volendo scoprire se i caratteri propri di queste discipline siano applicabili con successo anche al campo metafisico, Kant rivolge la sua indagine critica non più agli oggetti della conoscenza, ma al soggetto.

Entriamo, così, in una nuova prospettiva, quella della “rivoluzione copernicana” che pone al centro dell’universo conoscitivo il soggetto pensante, lasciando che l’oggetto venga colto secondo le modalità proprie dell’intelletto: “Per una volta si tenti dunque, se nei problemi della metafisica possiamo procedere meglio, ritenendo che gli oggetti debbano conformarsi alla nostra conoscenza. Già così, tutto si accorda meglio con la desiderata possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti, la quale voglia stabilire qualcosa su di essi, prima che ci vengano dati. La situazione al riguardo è la stessa che si è presentata con i primi pensieri di Copernico: costui, poiché la spiegazione dei movimenti celesti non procedeva in modo soddisfacente, sino a quando egli sosteneva che tutto l’ordinamento delle stelle ruotasse attorno allo spettatore, cercò se la cosa non potesse riuscire meglio, quando egli facesse ruotare lo spettatore e facesse per contro star ferme le stelle”.

Se la metafisica potrà essere scienza, dovrà esserlo, dunque, secondo le modalità convalidate dalle scienze positive. La logica, l’aritmetica, la geometria e la fisica vengono riconosciute degne di affidabilità in forza dell’univocità del loro metodo, nonché in forza dell’accordo inter-soggettivo dei loro cultori. Ma questi presupposti trovano la loro giustificazione più profonda nella fondazione trascendentale di tali conoscenze, fondazione che riconduce la garanzia della loro oggettività all’aprioricità degli elementi da cui esse discendono.

La parola “trascendentale” non viene usata per esprimere il rapporto della nostra conoscenza con le cose, ma soltanto con la facoltà conoscitiva. La fondazione trascendentale della conoscenza, quindi, è volta a mettere in luce le rappresentazioni elementari del pensiero che si possono applicare a priori all’esperienza. Si tratta di elementi primi, irriducibili, che possiedono funzioni diversificate: da una parte le forme “pure” della sensibilità – lo spazio e il tempo – intuizioni a priori che rendono possibile la concezione spazio-temporale del reale; dall’altra i concetti puri a priori, ovvero le categorie, presupposti della pensabilità di qualunque oggetto.

La conoscenza, che per Kant scaturisce sempre dall’unione reciproca dei concetti e delle intuizioni, si trova così guidata dall’alto e anticipata, rispetto alla forma, in attesa di ricevere i contenuti dell’esperienza. Tali contenuti, che ci vengono offerti dall’intuizione sensibile, sono il riferimento oggettivo necessario di qualsiasi conoscenza scientificamente valida. Ma l’organizzazione di questo molteplice in strutture teoriche coerenti spetta solo alla spontaneità dell’intelletto: è proprio questa “funzione della spontaneità” il centro della “rivoluzione copernicana”: essa conferisce alle singole scienze le proprie coordinate.

Da una parte l’esperimento, ovvero l’aggancio alla realtà; dall’altra i principi, che la ragione pone a monte di qualsiasi esperienza. La forma degli oggetti fisici, quanto alla loro spazio-temporalità e alla loro interpretazione secondo leggi, è data quindi completamente a priori. E solo dopo che questa aprioricità è stata riconosciuta la fisica ha ottenuto lo statuto di scienza. La fisica pre-galileiana, infatti, viene definita “un semplice brancolamento”, mentre il nuovo metodo di Galileo, che inaugura la scienza moderna, altro non è che una testimonianza della rivoluzione copernicana, e cioè di quella prospettiva che ha permesso di prendere tra le mani la natura per guidarla “secondo la ragione”.

Siamo così giunti al tema dei rapporti tra metafisica e scienza, uno dei luoghi classici della filosofia moderna e contemporanea. A partire da Kant, infatti, delle due accezioni classiche della metafisica – (a) studio dell’essere in quanto essere e (b) ricerca delle cause – viene conservata la prima, mentre la seconda è considerata di pertinenza della teologia. (b) viene a sua volta sostituita da un’accezione nuova: (c) caratterizzazione dello schema (o cornice) concettuale mediante cui l’uomo entra in contatto con il mondo. Essendo la struttura del mondo in sé inaccessibile a causa dei limiti cognitivi umani, il metafisico deve accontentarsi di descrivere la struttura del nostro pensiero “intorno al mondo”.

Tale situazione viene chiaramente descritta dal filosofo inglese Peter Strawson: “E’ possibile immaginare tipi di mondo molto diversi dal mondo che conosciamo. E’ possibile descrivere tipi di esperienza molto diversi dall’esperienza che abbiamo effettivamente. Esistono dei limiti entro i quali possiamo concepire, o renderci comprensibile, una possibile struttura generale dell’esperienza. L’indagine su questi limiti, l’indagine su questo insieme di idee che formano l’intelaiatura limitante di ogni nostro pensiero sul mondo e di ogni nostra esperienza di esso costituisce, ovviamente, un fondamentale e interessante compito filosofico”.

Si tratta della “metafisica descrittiva”, nel senso che essa deve identificare e caratterizzare, per l’appunto, lo schema concettuale che ci fornisce l’accesso epistemico al mondo. Ogni pensiero o esperienza che noi abbiamo presuppone l’applicazione di un insieme “strutturato” di rappresentazioni, vale a dire una “immagine” di come sono le cose nel mondo o, se si preferisce, una “storia” che noi raccontiamo a proposito del mondo e del nostro posto in esso. A sua volta questa storia ha una certa struttura ed è organizzata intorno ad alcuni concetti molto generali regolati da principi che ne formano per così dire l’ossatura. La metafisica descrittiva di cui sopra altro non fa che delineare i contorni fondamentali di tale struttura.

Si tratta ora di vedere se vi sia un solo schema concettuale di questo tipo (come in fondo presupponeva Kant) o se si debba parlare di “schemi concettuali” al plurale. Faccio allora un passo indietro notando che, grazie agli enormi successi conseguiti a partire da Galileo, la scienza moderna si è sempre più proposta come visione esaustiva della realtà che lascia pochissimo spazio alla filosofia (e in particolare alla metafisica). Il positivismo ottocentesco e il neopositivismo logico del ’900 forniscono una visione della storia del pensiero in cui la scienza rimpiazza man mano la filosofia spogliandola delle sue principali ambizioni conoscitive; tutto ciò in base all’assunzione di fondo che la scienza stessa sia in grado di avvicinarsi sempre più alla vera struttura del reale utilizzando metodi rigorosamente empirici, e quindi prescindendo dalle speculazioni astratte. Questa fase scientista, tuttavia, non durò a lungo, in quanto l’emergere del paradigma popperiano e della filosofia della scienza post-empirista portò ben presto a revocare in dubbio i principali assunti neopositivisti.

Ciò che importa è notare il fatto seguente: mentre Kant propone una visione in cui vi è una struttura singola e immutabile atta a spiegare il funzionamento della conoscenza e dell’esperienza, il continuo mutare dei paradigmi scientifici rilevato da Kuhn ha indotto molti ad ammettere l’esistenza di più schemi concettuali, i quali possono anche essere tra loro alternativi. Il compito della metafisica, allora, non è più descrittivo ma “comparativo”: essa deve mettere a confronto gli schemi differenti che, nel corso dell’evoluzione culturale del genere umano, hanno svolto un ruolo rilevante nei nostri tentativi di rappresentare la realtà.
Altrettanto importante è il tema dei rapporti tra scienza e senso comune, concepito quest’ultimo come lo schema concettuale più generale nel quale si articolano le nostre credenze intorno al mondo. A questo proposito si può ricorrere a un famoso esempio del fisico britannico Arthur Eddington. Quando si prende in considerazione un oggetto semplice come un tavolo, occorre in realtà pensare a due oggetti distinti. Il primo è quello solido del senso comune, dotato di dimensioni, colori, etc., mentre il secondo – l’oggetto scientifico – è completamente diverso, cioè un insieme di particelle subatomiche che non sono direttamente percepibili. Ne risulta un contrasto di fondo, proprio a livello metafisico, tra scienza e senso comune. E’ infatti ovvio che le due immagini del mondo ci propongono due diverse ontologie, e non è chiaro se – o fino a che punto – esse siano compatibili.

Da quanto si è detto finora è facile capire che il contrasto tra scienza e metafisica ha perduto ai nostri giorni buona parte dei connotati di drammaticità che esso presentava nei primi decenni del ’900. Da un lato alcuni filosofi si sono premurati di sottolineare che esse sono strettamente correlate. La stessa istituzione del discorso significante presuppone che, per parlare di “qualcosa”, si debba intendere quel qualcosa in un certo modo, e ciò significa che la comprensione di alcune caratteristiche generali della realtà costituisce per qualsiasi individuo un pre-requisito indispensabile.

Dall’altro, sono stati proprio alcuni celebri scienziati a notare che l’eliminazione della metafisica ipotizzata da positivisti e neopositivisti è un’impresa impossibile. Per esempio, rifiutando la concezione scientista e meccanicista della metodologia della scienza, Albert Einstein definisce “opportunista” il proprio programma epistemologico. Egli scrisse infatti: “Lo scienziato apparirebbe perciò all’epistemologo sistematico come un tipo di opportunista privo di scrupoli: sembra un realista fintanto che cerca di descrivere il mondo indipendente dagli atti di percezione; sembra invece idealista, quando guarda a concetti e teorie come a libere invenzioni dello spirito umano, non logicamente derivabili dai dati empirici; sembra un positivista, quando riguarda i suoi propri concetti e teorie come quelli che si giustificano unicamente in quanto che riescono a fornire una rappresentazione logica delle relazioni fra le esperienze sensoriali. Può persino dar l’impressione di essere platonico o pitagorico, nella misura in cui considera il punto di vista della semplicità logica come uno strumento indispensabile ed efficace della propria ricerca”.

Si pone insomma l’esigenza di superare le dispute sterili basate su proclami di superiorità enunciati alternativamente da scienziati e filosofi, riconoscendo la pluralità delle visioni del mondo e delle loro espressioni linguistiche che danno vita alla metafisica. Anche quest’ultima possiede – per usare la terminologia popperiana- uno statuto congetturale, come del resto riconosce Umberto Eco: “l’essere ci fa brevi cenni, come amichevoli ed enigmatiche strizzate d’occhio; esso ci seduce, ci lascia capire che c’è una promessa da capire (e lascia a noi d’indovinare dove si possa incontrare il limite). E ci consegna così all’avventura infinita della congettura”.

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