Charlotte si ferma a
raccogliere l'autostoppista Max lungo la strada e decidono di bere
un caffè assieme nel vicino ristorante “La spack” dallo stile
inconfondibilmente western. All'interno del locale avviene una breve
rissa con un gruppo di motociclisti, fermata dalla strana oste. Max si
dirige al bagno per curarsi le lievi ferite ma una volta all'interno
non ne uscirà più. Charlotte preccupata dall'assenza del nuovo
amico tenterà di capire dove sia finito. La ricerca porterà a galla
orrori che non sarebbero mai dovuti affiorare.
Converrete con me che ultimamente la produzione
horror non è così pregna di opere interessanti ma finalmente
qualcosa si è mosso. Peccato che si muova sempre dalla stessa parte.
Non importa, determinante è che La meute è davvero un gran bel
film.
Seppur con tutti i
difetti che si possono trovare, il regista Franck Richard ci propone
una pellicola diversa dalla solita minestra e riesce a mescolare
sangue, torture e mostri, senza distruggere il gusto genuino di un
buon intrattenimento. E poi, da non sottovalutare, qui ci sono alcuni
dei nomi più importanti della nuova scena del perturbante
transalpino: Vérane Frédiani e Franck Ribière (produttori di “A
l'interieur”) e Philippe
Nahon (“Calvaire”,
“Alta tensione”).
Si parte con la tipica
ragazzina punk (con un tatuaggio fighissimo dei Black Flag sul
braccio) che viaggia senza nessuna meta in mezzo ai campi nebbiosi
della Francia di “Calvaire”. L'indecente bellezza dell'auto
guidata dalla protagonista e il curatissimo look fanno presagire che
il regista abbia spinto notevolmente sull'aspetto scenografico che in
effetti è di tutto rispetto. La fotografia di Laurent
Barès (“Frontiers”)
è ben curata ed è spiazzante l'immissione di un saloon
western, con tanto di sceriffo in bicicletta, in un contesto
soffocante e fangoso com'è la campagna francese. Molto d'effetto.
Una volta che Charlotte
entra nel ristorante “La Spack” succede già qualcosa che non ti
aspetteresti mai, e due risate grasse scappano volentieri. La scena
del bambino incellophanato che si schianta sul muro è da antologia
ed è così divertente proprio perché non ha nessuna attinenza con
tutto quello che sta succedendo. Una sorta di siparietto che vuole
sottolineare la difformità d'intenti di quest'opera rispetto alle
altre, più famose. La barzelletta dei maniaci raccontata dalla
ragazza, poi, è davvero un momento di inaspettato umorismo noir, ma
felicemente riuscito tanto che proprio questo sarcasmo rimane
efficacemente aggrappato alla trama fino alla fine. Il momento della
sparizione di Max è il punto di svolta della prima parte. La ragazza
denuncerà la sua scomparsa al vecchio sceriffo in pensione, un
personaggio meravigliosamente sciocco, che si innalza a protettore di
donzelle indifese dagli sporchi maniaci, ma indossa una maglietta
XXXL con su scritto a caratteri cubitali “I fuck on the first
date”. Poi il film inizia a decollare sul serio e ci si può
aspettare di tutto dopo un inizio tanto particolare, ma non quello
che è passato per la testa di Richard.
Vedremo una breve serie
di torture da manuale tra cui spicca “la sedia”. Ma è proprio
qui il guizzo di geniale follia. Le torture non sono fini a se stesse
ma hanno uno scopo ben preciso che sarà il filo conduttore della
seconda parte. Da qui la pellicola acquista un vigore inaspettato e
vengono sfasciati uno dopo l'altro una serie di stabilizzanti cliché.
A partire dall'assedio nel capanno della cava fino al gustosissimo
sogno di liberazione di Charlotte, ci troveremo sballottati in un
turbine di stravaganti carrellate di invenzioni e di personaggi tanto
assurdi quanto adorabili (i motociclisti e la madre fra tutti) che
non sarà facile dimenticare.
La sceneggiatura non è
certo il punto forte e vacilla pericolosamente in alcuni tratti, ma
in questo tipo di film uno script preciso renderebbe la visione
troppo seriosa. La pecca più grossa si potrebbe notare nel ritmo che
non è molto sostenuto ma sorvoliamo, vista la quantità di carne che
viene messa sul fuoco. Il cast è stato ben selezionato e tranne la
voluta stereotipizzazione dei centauri, tutti svolgono egregiamente
il loro lavoro. Spicca fra tutti una immortale Yolande Moreau,
irriconoscibile se avete visto “il favoloso mondo di Amelie”.
Fortunatamente non c'è
nessuno spiegone e il finale è bello come pochi se ne sono visti
ultimamente.
I francesi sanno sempre
come girare la frittata e lo fanno con uno stile inconfondibile che è
diventato marchio di fabbrica, e non disdegnano di tuffarsi con esso
in ogni sottogenere horror conosciuto. La meute è un'opera che si
può posizionare in quel filone “balordo” che io adoro alla
follia, in cui troviamo gioielli come “Feast” e
“Botched”, e sono sicuro che non deluderà lo spettatore a
digiuno di novità.