Magazine Diario personale

La mia generazione non ha fatto la guerra*

Creato il 24 novembre 2013 da Cristiana

La mia generazione non ha fatto la guerra. L’ha sentita raccontare da chi l’aveva combattuta o da chi aveva atteso invano i ritorni o aveva conosciuto uno zio o un padre da una foto in bianco nero, in divisa e chi è morto in guerra ha continuato a vivere nella narrazione epica di chi era sopravvissuto, consegnandosi all’immortalità nell’immaginario del proprio microcosmo familiare.

La mia generazione vive in tempo di pace, un tempo in cui la necessità non genera sentimenti collettivi come accade in tempo di guerra ed è difficilissimo per noi scardinare la solitudine, condizione con cui combattiamo la nostra personale guerra, una guerra che non può essere raccontata perché è spesso troppo intima, troppo prigioniera della discrezione, troppo individuale.

Questo è un tempo che frammenta le individualità e toglie dignità ai dolori, gliela toglie perché sono dolori tutti diversi, incondivisibili.

Per condividerne la forza vanno raccontati e spiegati. In tempo di guerra non si doveva spiegare nulla. Quello era un tempo uguale per tutti: bastava guardarsi per capire di avere fame.

Le guerre che hanno segnato la vita dei nostri nonni e dei nostri genitori che di quella guerra erano figli diretti, erano eventi la cui narrazione è stata corale, condivisa, innegabile. Il dolore della guerra, l’attesa, il lutto, la decimazione, la povertà, i bombardamenti erano il vissuto di tutti. Non c’era bisogno di dirlo. Era, ed era per tutti.

I nostri dolori non sono confrontabili con i dolori del novecento. Con l’olocausto. Con le campagne di Grecia e di Albania. Con chi non è tornato dalla Russia. Noi siamo la generazione che, in apparenza, non ha nulla da raccontare e ha tutto da ascoltare. Insieme all’incomparabilità del dolore viviamo un tempo in cui all’apparenza ci è concesso di scegliere infinite volte ed in cui ci sono infinite possibilità. Non esistono destini di classe. Non esistono destini di genere. Esiste tutto e il contrario di tutto e noi possiamo essere tutto, possiamo avere tutto. Quella possibilità diventa una forma di dovere: dovere approfittare di tutte le possibilità e di tutto ciò che sembra possiamo ottenere. Questo livello sempre più infinito di possibilità e desideri diventa il pozzo dell’incontentabilità del nostro tempo.

Invece bisogna ragionare sulla guerra della nostra generazione, sulla guerra che da intima può divenire collettiva, ritrovando le similitudini tra le solitudini, riconoscendo che la precarietà è il canone del nostro tempo in tutte le sue sfaccettature, non necessariamente tutte negative. Quello che qualcuno chiama il mondo liquido è esattamente il nostro ambiente, quello del nostro tempo, come se da animali di terra che abitavano il novecento, fossimo diventati animali d’acqua per sopravvivere nel nuovo millennio. E’ necessario fare emergere il linguaggio collettivo, esiste, anche se ancora sommerso. Esiste un racconto corale della nostra generazione, si comincia a “sentire”.

*Riflessioni sul finire del terzo romanzo.


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