Era il 1992, e il paese si trovava nel pieno vortice della tempesta di Tangentopoli. Un’intera classe dirigente veniva travolta, politici e faccendieri vari si videro aprire le porte del carcere, e una nuova stagione sembrava iniziare. Nasceva la Seconda Repubblica, quella del post-terremoto, Antonio Di Pietro finì addirittura sulla copertina di “Sorrisi e Canzoni”, che celebrava il suo essere l’idolo delle masse nazional-popolari, il paladino capace di liberare la patria dal cancro di malcostume che l’aveva attanagliata per tutti gli Anni ’80 e anche prima.
Noi neomaggiorenni da poco svezzati dai cartoni animati di Italia 1 (e passati senza nemmeno cambiare canale da “L’Uomo Tigre” alle lolite sculettanti di “Non è la Rai”) cercavamo di capire quale sarebbe stato il mondo che da lì a breve avrebbe ospitato il nostro essere adulti. C’era una gran confusione, un casino globale, e tutti ci sentivamo un po’ storditi nel bailamme di punti di riferimento che cadevano lasciando un vuoto e una nazione da ricostruire ex novo.
Chissà.. forse in quel momento ci fu data l’occasione di prendere in mano le redini della storia e noi ce la lasciammo sfuggire, troppo concentrati com’eravamo (chi per libido, chi per invidia cocente) sulle lolitine sculettanti di cui sopra.
Tempo due anni e ci ritrovammo punto e a capo, anzi, peggio di prima, con la restaurazione di quella che da lì a breve si sarebbe chiamata casta, gente abilissima e sveltissima nel riappiccicar le chiappe alla poltrona in maniera più ostinata di prima, capace dunque di far tesoro dell’esperienza come invece il popolo degli elettori non si era dimostrato in grado di fare.
Nove anni dopo quel 1992 pieno di occasioni perdute per noi (sempre giovani ma un po’ di meno), un grande vecchio della poesia in musica lanciava un disco straordinario, attuale oggi e sempre, attuale domani più di allora:
La mia generazione ha visto
le strade, le piazze gremite
di gente appassionata
sicura di ridare un senso alla propria vita
ma ormai son tutte cose del secolo scorso
la mia generazione ha perso.
Noi, diciottenni del 1992, ventisettenni del 2001, non potevamo far altro che ascoltare, sentirci raccontare la delusione da chi almeno aveva provato a mettersi in gioco, e biasimare noi stessi per quel ritrovarsi sconfitti senza neanche aver prima partecipato. Potevamo solo biasimare noi stessi, visto che avevamo scelto di rimanere fuori, estranei, preferendo le lolitine sculettanti della tivù, l’astrazione, lo stordimento, l’entertainment, tagliandoci il futuro con le nostre stesse mani per non voler correre il rischio di ritrovarci magari, venticinque anni dopo, vinti e amareggiati come i nostri padri.
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