25 FEBBRAIO – Agli atroci video sanguinosi che circolano sulla rete, con persone alle quali viene letteralmente tagliata la testa o che vengono bruciate vive all’interno di una gabbia, si sommano gli attentati terroristici: prima Parigi, ora Copenhagen. Siamo ben lontani cronologicamente e socio-politicamente dai tempi storici della ghigliottina o degli eretici arsi vivi sul rogo in pubblico. Eppure lo scenario sembra emulare quelle situazioni, sacrificando innocenti, videoreporter e giornalisti che svolgono solo il loro mestiere. Un lavoro improntato sull’obbligatorietà morale dell’informazione, in merito alla quale si parla tanto di libertà di pensiero e di espressione. Ma veramente i giornalisti sono così liberi di parlare, scrivere, testimoniare, documentare ciò che vedono, sentono, sanno? E’ il grande dilemma dell’ultimo periodo in seguito ai fatti accaduti e non è mai stato così neanche in passato. Basti pensare alle censure nell’Era dei Totalitarismi ma anche alla scelta da parte di Telegiornali e Giornali di trasmettere alcune notizie piuttosto che altre.
E nella patria della liberté, egalité e fraternité, come nel resto d’Europa, forse non si padroneggia bene il concetto di insulto. Siamo una società cresciuta all’insegna delle grandi libertà di informazione, reduce delle grandi rivoluzioni indipendentiste, ma con un pizzico di presunzione, forse, che la nostra cultura sia migliore o superiore alle altre, fermo restando che la nostra storia letteraria affondi le proprie radici nell’equiparabile antichità greco-romana. Ma siamo anche una società che dal secondo Dopoguerra in avanti è cresciuta davanti alla televisione, assorbendo passivamente messaggi che i Media ci hanno trasmesso, coltivando in noi una percezione della realtà leggermente distorta, attraverso le fiction, l’intrattenimento, i talkshow eccetera. I mezzi di comunicazione di massa hanno il grande potere di costruire dei frame che noi scambiamo per situazioni vere, perché il potere comunicativo dello schermo ha abbassato le nostre difese razionali. Ed ecco allora che quando si parla di Islam automaticamente la nostra mente associa questa religione al terrorismo. Questo accostamento diventa pericoloso perché anche se si dimostra ad esempio con dati statistici alla mano che su ben un milione e mezzo di islamici in Italia solamente 10 sono stati individuati come terroristi, la popolazione comunque non ci crede, perché si è creato in noi inconsapevolmente questo meccanismo; così come nonostante Questura e Prefettura attestino la riduzione della criminalità e dei reati, la gente in ogni caso afferma il contrario, o quando si dice che gli extracomunitari scippino nonostante non se ne sia mai visto uno coi propri occhi.
Si tratta di quello che il giornalista statunitense Walter Lippmann ha chiamato Pseudo-Ambiente, ovvero quello che si crea nella mente di ciascuno di noi ed è costituito da pochi fatti reali, tanti fatti mediati, tante opinioni mediatiche che si mescolano con vissuti, opinioni e storie personali.
Inutile ribadire il timore di ulteriori attacchi terroristici in nuove città europee, così come la paura dell’arrivo dell’Isis a Roma, come da loro preannunciato sul web, ma è bene soffermarci un attimo sul potere della comunicazione e di quanto ciò che diciamo e soprattutto come lo diciamo possa provocare conseguenze piuttosto che altre.
Gloria Girometti
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