Magazine Diario personale
Avevo 17 anni, e nell'educazione rigorosa del mio spartano padre sabaudo (non maschilista, tutt'altro, però spartano e sabaudo) fino a 18 anni non potevo uscire la sera ché se mi fosse accaduto qualcosa lui sarebbe stato responsabile penalmente per me e non voleva problemi. Quindi niente uscite serali. Nel pomeriggio andai nel vicino parco Ruffini dove al Palasport ci sarebbe stato alla sera il concerto dei Cure, che già amavo. Era il 1987. Mi intrufolai nella coda alla biglietteria, ancora chiusa, per il solo desiderio di respirare l'atmosfera di questo pubblico vestito in nero con pizzi e anfibi, così retrò e affascinante agli occhi d'una ragazzina - ero molto più scema e ingenua dei giovani d'oggi e tale sono rimasta :-D
Iniziai a parlare con alcune ragazze e una di queste, sentito che amavo i Clash ma non avevo il loro primo disco, avendo con sé cassette che ascoltava nel walkman tra le quali quello, me lo prestò per 'sdoppiarlo' (sdoppiavo cassette su cassette all'epoca, e ancora ho almeno 300 nastri), segnando il suo numero di telefono su un foglietto che di lì a pochi giorni persi, con profondo senso di colpa (ehi, se mi leggi contattami: ce l'ho ancora la tua cassetta originale, e sarei stra-felice di restituirtela!). Tornai a casa già felice.
Mio padre mi chiese del concerto di quella sera, l'avevo implorato in tutte le salse per andare, ma me l'aveva impedito per la suddetta ragione e non cedeva. Dopo cena mi disse: "Dai, vai, sono solo tre fermate di bus, ma a mezzanotte ti voglio a casa". Mi vestii velocemente e corsi fuori, arrivai là, comprai il biglietto, entrai e mi infilai nel casino sotto il palco. Il folletto stava suonando i primi accordi e io ero in estasi totale. Stetti lì sotto a ondeggiare, ballare, lasciarmi trasportare dalla musica che m'incantava.
La temperatura era altissima (sebbene fosse solo primavera), una massa umana danzante l'aveva alzata al punto tale che avevo annodato la mia camicia bianca in vita (look tamarro e semplice dell'epoca) e quella mi si era appiccicata addosso. Nel buio scorsi un mio compagno di scuola che già mi piaceva e con cui c'era 'qualcosa', il quale, parimenti sudato e felice, con la sua carnagione scura m'apparve in mezzo alla gente che si spintonava come una visione. Incrociato il mio sguardo s'avvicinò, mi baciò (non era la prima volta: nessuna rivelazione stratosferica) e rimanemmo lì nel piacere della situazione e del baciarci reciprocamente le gocce di sudore che ci colavano dalla fronte e sul collo.
Come spesso m'accade ancora adesso, quando sono all'apice del piacere in una situazione, me ne vado, per godermela da sola senza permettere che scemi e si spenga (come è naturale che sia) in compagnia altrui. Per cui a un certo punto me ne andai, comprai una birra gelida e salii sugli spalti per vedere la platea sotto, dove mi trovavo sino a un istante prima. Bevendo la mia birra guardai giù proprio mentre i Cure attaccavano A forest e il pubblico si muoveva come un'onda dolce e intensa davanti ai miei occhi. Scoprii che quello era l'effetto visivo del pogare - era la prima volta che lo vedevo e lo sentii definire così solo tempo dopo frequentando amici punk - quando fatto nel modo più dolce e rilassato e di nuovo sorrisi, provando un immenso piacere.
Quello stesso piacere che m'ha dato rivivere questo ricordo, per il quale ringrazio Blackswan (dovremmo sempre essere grati a coloro le cui parole aprono cassetti come questo nella mente: ci riconnettono con la parte più profonda e luminosa di noi stessi oggi, con le ragioni originarie di ciò che noi oggi siamo).
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