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La mia Sicilia, dalla scuola dell’INDA alla fiction RAI “Agrodolce” (della quale si sta per celebrare il funerale)
Creato il 25 novembre 2009 da Rita Charbonnier @ritacharbonnier…e dagli antichi è detta
Per nome Ortigia. A quest’isola è fama,
Che per le vie sotto al mare il greco Alfeo
Vien da Doride intatto, infin d’Arcadia
Per bocca d’Aretusa a mescolarsi
Con l’onde di Sicilia.
(Virgilio, Eneide, III, trad. Annibal Caro)
Giunsi in Sicilia per la prima volta vent’anni fa. Avevo superato le selezioni di ammissione alla Scuola di Teatro Classico dell’INDA di Siracusa e per me iniziava una straordinaria esperienza formativa. La mia idea di quella che poteva essere Ortigia era piuttosto una farneticazione; me l’avevano descritta come una piccola isola collegata alla città da un ponte che io, chissà perché, avevo trasformato con l’immaginazione in un ponte levatoio. Giovane, sprovveduta e incline a fantasie bizzarre, ero convinta di trovare un luogo verdeggiante e selvaggio, con un paesaggio da savana e le scimmiette arrampicate in cima ai baobab. L’impatto con la realtà fu ben più emozionante.
Presi ad aggirarmi tra edifici barocchi e pietre millenarie, assaporando gli echi di una civiltà raffinata e antichissima e ritrovando nella memoria i miti che quella civiltà produsse. Miti che, come è noto, obbediscono talvolta al bisogno umano di controllare gli incontrollabili fenomeni della natura – e così una fonte d’acqua dolce, vicinissima al mare, diviene una ninfa sfuggita alle attenzioni di un dio troppo audace. Quella ninfa era lì, davanti a me, pacificata. Feci il bagno in mare nei pressi e rimasi stupefatta nel percepire le correnti fredde che premevano dal basso. Ripensai alla storia di Aretusa come a una bellissima metafora della trasformazione che due amanti devono subire individualmente, prima di diventare una coppia.
Al vertice dell’INDA c’era ancora il professor Giusto Monaco, studioso eccelso e uomo eccezionale. Si diceva fosse in grado di recitare a memoria, in greco antico, tutte le tragedie classiche giunte fino a noi – e naturalmente di disquisire sui loro significati. Era circondato da un’aura naturale di rispetto. Non lo chiedeva; gli era dato. Non c’erano alternative. Dall’alto della sua cultura, mai esibita, sovraintendeva alle umanità scomposte dei teatranti, o aspiranti tali, con signorile discrezione.
Recitare al Teatro Greco dona un’emozione irripetibile. L’inizio delle rappresentazioni alla luce del giorno fa sì che l’interprete riesca a distinguere uno ad uno gli individui che affollano la platea, anche se immensa – basta posarvi per un attimo lo sguardo. In quel caso, così speciale, gli spettatori sono persone, non un unico anonimo acquattato nell’ombra di una sala al chiuso. L’esperienza degli spettacoli a Siracusa, nel suo complesso e per ognuno di noi, costituì uno straordinario appagamento delle emozioni e dei sensi. Molti attori che ho conosciuto lavoravano con varie compagnie durante l’inverno e in primavera facevano carte false per essere ammessi a recitare negli spettacoli estivi dell’INDA. Uno di questi, che di norma esibiva un’aria d’uomo tutto d’un pezzo, mi raccontò di aver pianto sul traghetto di ritorno, alla fine dell’esperienza: non riusciva a rassegnarsi all’idea che fosse davvero finita.
E invece finiva per tutti, e finì anche per me. Dopo la scuola, e la partecipazione alle rappresentazioni classiche, iniziai a lavorare con una compagnia di Genova e da allora in Sicilia tornai di rado. Recitai un paio di volte nella favolosa Segesta e visitai il tempio in cima alla collina, attorno al quale sembra volino ancora le colombe care ad Afrodite; passai da Palermo nel corso di una tournée e in una sola settimana ingrassai di quattro chili, incapace di resistere alle delizie gastronomiche.
Di recente la Sicilia è rientrata nella mia vita, a conferma del fatto che il mio rapporto con questa terra non si è mai estinto. Dopo quindici anni di carriera in teatro, avevo impresso una virata alle mie energie creative e mi ero dedicata alla scrittura. Il mio primo romanzo (La sorella di Mozart) era stato pubblicato e stavo lavorando al secondo (La strana giornata di Alexandre Dumas); inoltre elaboravo sceneggiature per Rai e Mediaset. D’improvviso mi chiamarono a scrivere Agrodolce: una serie televisiva ambientata nell’immaginario paese costiero di Lumera. In verità i produttori cercavano sceneggiatori siciliani; la permanenza giovanile nell’isola dovette giocare a mio vantaggio.
La serie, voluta da Giovanni Minoli e prodotta dalla Einstein Multimedia, si è avvalsa di una consulenza prestigiosa come quella di Roberto Alajmo per le storie e i dialoghi, e di un gruppo di lavoro di ottimi autori. E’ stata trasmessa su RAI 3 con risultati di ascolto e gradimento più che soddisfacenti, per poi arenarsi su questioni economiche e burocratiche incomprensibili ai più. Al momento in cui scrivo non si sa se ci sarà una ripresa; tutti speriamo in un miracolo dell’ultimo minuto. Se il miracolo non dovesse verificarsi, sarebbe una disdetta per le centinaia di persone che perderebbero il lavoro, in Sicilia e altrove, e anche per le storie finora narrate – poiché la cosiddetta “lunghissima serialità” è concepita per non fermarsi mai. Gli archi narrativi durano mesi, anni, persino decenni, come nella vita. Qualunque cosa accadrà, tuttavia, io sono certa che l’arco del mio rapporto d’amore con la Sicilia non si interromperà. Potrà al massimo subire una nuova metamorfosi – come per Aretusa.
Foto: Leandro's World Tour, Allie Caulfield.
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