di Lucy Kellaway
Una volta c’erano due risposte alla maggior parte delle cose d’affari — sì e no. Ora ce n’è una terza che sta diventando più popolare di entrambe. È il silenzio — ossia nessuna risposta alcuna.
Ho appena avuto un messaggio angosciato da un lettore che ha passato l’anno scorso a cercare lavoro, affrontando spesso parecchi turni di interviste, con il risultato che non ha ricevuto offerte, e neanche bocciature. Ogni volta il processo è terminato nel silenzio.
Il silenzio non è una risposta solo alle ricerche di lavoro, ma anche alle offerte di vendita, gli inviti, le proposte di riunione, i promemoria, le richieste generali — o qualsiasi cosa inviata per email.
In questa non-comunicazione perdono tutti, anche se alcuni più di altri. Per i distributori di silenzio, non rispondere non è educato né efficiente, ma è vitale per sopravvivere. Ogni giorno evito di rispondere a dozzine di messaggi, perché con così tanta spazzatura che arriva il silenzio è l’unico modo per restare sani di mente.
Ma la salute mentale dell’uno genera squilibrio nell’altro. Il silenzio fa impazzire l’aspirante lavoratore — la certezza della bocciatura, mi ha detto, gli sarebbe stata più grata. Tutti i giorni sento un’ansia che varia fra il moderato e lo sfibrante perché una gamma di persone ha mancato di rispondere ai miei messaggi. Il silenzio che ha accolto un’email leggermente sfacciata era dovuto al disgusto per il tono leggero? Quando ho mandato un’email con la scaletta dell’idea per un articolo, il silenzio che ne è seguito esprimeva sgomento? O disaccordo? O qualcosa del tutto diverso?
Ciò che rende così snervante il silenzio delle email è che è impossibile interpretarlo. Quando parli con qualcuno, puoi vedere se è ammutolito dallo stupore, dalla riprovazione o dalla noia. Ma le email non danno indizi. La persona ha davvero visto il messaggio? Ti sta ignorando deliberatamente? O è disgustata? Occupata? Scarica? O può essere — come a me accade spesso — che abbia letto il messaggio sul telefonino senza gli occhiali da vista a portata di mano, e che l’ora che li ha trovati il momento sia passato.
Jamie Dimon, l’amministratore delegato di JPMorgan Chase, pensa di avere la risposta. Ha detto a tutti i suoi inferiori di rispondere alle email in giornata — il che può essere una buona notizia per i clienti della banca, anche se di certo significa che i suoi banchieri saranno così occupati a battere risposte affrettate da non avere tempo per l’attività bancaria.
Un’altra soluzione potrebbe essere un sistema che ci consenta di controllare subito se le nostre email sono state aperte. Ma neanche questa è una risposta, perché le “conferme di lettura” sono invadenti, e sapere che qualcuno ha letto il tuo messaggio non diminuisce la paranoia — l’aumenta.
L’unica soluzione efficiente sarebbe di rendere più complicato e costoso comunicare gli uni con gli altri. Arriverebbero soltanto richieste ragionevoli e rispondere tornerebbe di moda. Ma fino ad allora ognuno di noi deve costruirsi un metodo.
Il punto di partenza è capire che anche se il silenzio probabilmente significa no, potrebbe anche significare sì o forse — ciò che rende essenziale chiedere di nuovo. La pancia mi dice che è umiliante, ma la pancia si sbaglia. Non bisogna vergognarsi di assillare: in un mondo dove la gente ha largamente rinunciato a rispondere, è imbecille chiedere una volta sola.
Quindi quanto dovremmo aspettare prima di chiedere di nuovo? Ho trovato un articolo di un professore del MIT che suggerisce che l’80 per cento delle risposte arriva nelle prime 29 ore, con un ulteriore 17 per cento che arriva negli undici giorni successivi. In base a questa ricerca sarebbe giusto aspettare dodici giorni — che a me sembra troppo. Non riesco a ricordarmi di avere ricevuto niente dopo tanto tempo; penso che la risposta giusta sia semmai una settimana.
La domanda successiva è cosa dire nel sollecito. La mia casella è ingolfata di messaggi che iniziano con “Mi spiace disturbare…” o “Non so se hai avuto tempo di leggere il mio messaggio…”, entrambi i quali abbassano vagamente chi li scrive. Meglio riassumere il messaggio in una frase, unendo l’originale per non sbagliare.
La domanda finale è quante volte ripetere il processo, se la risposta continua a non materializzarsi. Dipende da quanto tieni alla risposta, ma penso che tre volte vada bene. Se la risposta doveva essere no, assillare non può peggiorare le cose. E c’è abbastanza gente — e sono ancora qualche volta in questo debole gruppo — che dedica il suo tempo non a chi desidera vedere di più ma a chi insiste più a lungo.
L’altra soluzione è rinunciare alle email e prendere invece il telefono. Ci sono ricerche che suggeriscono che è più probabile che le persone facciano ciò che vuoi se glielo chiedi parecchie volte per vie diverse. Può darsi sia così, ma detesto così tanto che la gente mi telefoni dicendo “Chiamavo solo per sapere se avevi visto l’email” che, anche se questo approccio funzionasse, in tutta sincerità non riesco a raccomandarlo.
Articolo originale (Financial Times). Lucy Kellaway tiene la rubrica Dear Lucy del Financial Times, dove risponde alle lettere di manager perplessi e insoddisfatti, in genere invitandoli a smettere di lamentarsi.
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