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In netto ritardo e in controtendenza con tutti quelli che appena esce un film (soprattutto questo) si precipitano nelle sale (non è mai il mio caso), ieri sono andata a vedere Avatar, spinta più che altro da mia figlia che da una mia reale volontà.
E devo dire che mi è piaciuto, e anche molto. La spiegazione è semplice e non c’entrano le tecnologie o i messaggi: è una favola, e nelle favole si sogna. Mi sono immersa dall’inizio alla fine in un sogno semplice, lineare, dove ci sono i buoni e i cattivi, dove si sa fin dall’inizio chi vince e chi perde e chi si innamorerà di chi.
Rassicurante, perché alla fine poi, anche se conquistata a caro prezzo, arriva la vittoria.
E dal momento che non sono una critica cinematografica, mi affido alle parole di Michele Serra su Repubblica, con il quale concordo in pieno quasi sempre:
“Chi vede nella tecnologia un fattore di disumanizzazione, e teme che la geometrica potenza degli effetti speciali sfratti dallo schermo la semplicità dei sentimenti, vada a vedere Avatar, e ci porti tranquillamente anche i bambini. Se Avatar ha un difetto non è certo la lussuria ottica. È il moralismo da fiaba edificante. Quel moralismo che è una delle nervature fondamentali (e immortali) del cinema americano.
Vincono i buoni (e ci si commuove), e i cattivi in rotta abbandonano la scena in catene. L'estasi spettacolare, le montagne di denaro speso, l'alea di "salto d'epoca" dal punto di vista tecnologico, sono l’involucro rutilante di un buon vecchio film d'avventura a lieto fine.
Più dei nemici della contraffazione tecnologica, saranno dunque i nemici del politicamente corretto ad avere qualcosa (anzi, molto) da rimproverare a James Cameron.
Il film è una specie di sunto trionfante dell'intera vulgata "buonista", come direbbe la destra a corto di sinonimi. L'eroe è un marine paraplegico che per riscattare il suo handicap (o proprio in virtù di quello) saprà dare al suo avatar (che è il suo "doppio" al cubo: un altro sé, e alto quattro metri) l'energia e la prestanza fisica del guerriero vittorioso.
Il male è incarnato dall'avidità del profitto, disposto a schiantare un pianeta, e distruggere una specie aliena, pur di impossessarsi di un minerale prezioso. Il bene ha il volto antico del Buon Selvaggio, il popolo Na'vi che vive in simbiosi con la foresta, adora gli alberi (il Vaticano non gradirà) e nel contatto per niente metafisico con la materia vivente elabora una specie di religione pan-tattile che spinge a toccarsi, intrecciarsi, cavalcare animali, come se ogni organismo vivente fosse parte di una sola grande Rete.
Cosa che conferisce al film, formalmente castissimo, momenti di insolita sensualità.
Siamo a mezzo tra "salvate l’Amazzonia" e il western pro-nativi, quello che proietta sulle tribù americane sgominate la mitologia della Natura Savia, e su noi altri, non senza motivo, il sospetto di essere quelli che stanno segando il ramo sul quale tutti siamo seduti.
Tanto che l'eroe ibrido (mezzo uomo mezzo avatar) che alla fine sceglierà i "selvaggi", come precedente hollywoodiano rimanda al Kevin Kostner di Balla coi lupi, soldato di frontiera che preferisce re-incarnarsi nel "nemico" piuttosto che farsi riassorbire dalla molto sedicente civiltà. Peccato, solo, che il capo dei cattivi, qui in Avatar, sia un generale così fascista, e così stronzo, da rendere fin troppo facile la scelta di campo dell'eroe così come del pubblico.
Né gli effetti speciali né il 3D né, in futuro, l'ologramma che ti riaccompagnerà a casa in macchina dopo il film, riescono a rimediare a questo piccolo grande vizio del cinema popolare americano: dopo trenta secondi hai già capito chi è il buono, chi è il cattivo e chi si innamorerà di chi. E Avatar non fa eccezione. Detto questo, il film è un magnifico polpettone ecologista e anti imperialista, magari un po' frastornante per quelli delle generazioni arcaiche: due ore e tre quarti di 3D, con i visori calati sul naso, mi hanno prodotto una qual certa emicrania, con sussulti di nausea. E la sequenza bellica finale, mezz'ora buona di botti, luminarie, collisioni, inseguimenti, è decisamente troppo play-station per uno che preferisce il calcio Balilla. Ma la trama, per quanto tirata in lungo, alla fine ti conquista, la meraviglia di molte inquadrature lascia incantati e conferma che il cinema è ancora e sempre un'imbattibile scatola dei sogni, le creature della computer graphic sono sode e credibili quanto i giocattoli per un bimbo che li ami, li maneggi, li renda parlanti.
Per giunta, senza bisogno di essere accaniti cinefili, in Avatar ci si può divertire (gioco nel gioco) a trovare rimandi e citazioni di tutte o quasi le più insigni americanate di celluloide, dal suddetto Balla coi lupi a Mission a Apocalypse Now a Guerre stellari a Soldato blu, e gli appassionati di fantascienza riconosceranno negli enormi volatili cavalcati dagli alieni il segno ispiratore del grande Moebius.
Possono scoraggiare (e in parte mi è accaduto) alcuni ostacoli di ordine anagrafico e neurologico. L'ammasso di visioni mirabolanti, paesaggi inediti, bestie mai viste, esperienze oniriche, non lascia tregua, e vista una medusa d'aria non fai in tempo a godertela nei dettagli che appare un'oca-drago, o un camaleonte-trottola, il tutto avvolto da gorghi di luce, abissi vegetali, vertigini prospettiche. Avatar ti seduce a strati, a gragnuole, a bordate, come se ormai la meraviglia si dovesse e si potesse raggiungere solamente per accumulo, per quantità stordenti, e mai per sottrazione, per concentrazione, per intuizione. Il vuoto e il silenzio, la riflessione e l'elaborazione psicologica solo gli unici effetti speciali che mancano in Avatar, ma probabilmente questo è un problema solo per chi non ha i neuroni già impostati per l'iperbole sensoriale nella quale vivono e crescono i nostri figli. Impareranno a difendersi da soli, o forse hanno già imparato.”
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