di Massimo Pittau.Nella mia opera La lingua dei Sardi Nuragici e degli Etruschi (Sassari 1981, pg. 118) ero stato io il primo a segnalare e a pubblicare una strana iscrizione che è incisa su un masso accuratamente levigato dell’abside esterna della chiesa medioevale di San Nicola di Trullas, in agro di Semestene (SS); centro religioso e culturale in cui è stato composto e scritto il famoso “Condaghe di San Nicola di Trullas”. L’iscrizione, in andamento destrorso, è in alfabeto greco, ma nessuno dei suoi vocaboli è greco. Eccone la trascrizione esatta.
ANKΩ · PAMAFAME
TANKΩ ː PAΠΩΔA ː
PHΠHNA
ΣATIE
Risulta subito chiaro che l’incisore dell’iscrizione era in possesso di una cultura medio-superiore: conosceva infatti il greco e aveva una certa infarinatura di nozioni di epigrafia, come dimostra l’uso – parziale – che fece della punteggiatura. Inoltre – come vedremo più avanti – era un amante e cultore di poesia popolare in lingua sarda.
Dato che alcuni vocaboli mi sembravano corrispondere ad altrettanti etruschi, io ne avevo tratto l’opinione che si trattasse di una iscrizione in lingua nuragico-etrusca, ma scritta in alfabeto greco. Però non avevo neppure tentato di prospettare alcuna traduzione.
In seguito, soltanto in una mia opera immediatamente successiva (Lessico Etrusco-Latino comparato col Nuragico, Sassari 1984, pg. 44) avevo fatto un breve cenno dell’iscrizione, ma poi l’ho trascurata del tutto, dato che alla lunga non mi ero più sentito di insistere sulla mia interpretazione iniziale.
Sull’argomento invece sono in seguito intervenuti Giulio Paulis, dell’Università di Cagliari, e Nello Bruno, del Liceo Azuni di Sassari, i quali hanno sostenuto che in realtà il testo è in sardo-logudorese e inoltre conterrebbe una “dichiarazione di amore”.
Di recente ha ripreso il problema di questa strana iscrizione Alberto Areddu, nell’ultimo fascicolo della rivista “Almanacco Gallurese – 2014-2015, pgg. 11-15), il quale ha messo le basi essenziali – a mio giudizio – per una esatta interpretazione dell’iscrizione e pure quelle di una sua verosimile traduzione. In effetti egli ha interpretato che siamo di fronte a una iscrizione semicriptata, con la quale «chi ha scritto voleva esser letto e capito fino a un certo punto». E infatti l’incisore ha adoperato il sardo-logudorese, ma scrivendolo in alfabeto greco e inoltre operando finti tagli e finte connessioni di vocaboli, di sillabe e di lettere.
Anche l’Areddu ha fissato la sua attenzione sugli ultimi tre vocaboli, che ha ricomposto e interpretato come po dare penas a tie «per dare pene a te». Si tratta di una formula che l’Areddu ha ritrovato, tale e quale, nei numerosi frastimos «impropreri» che il bravo studioso Salvatore Patatu di Chiaramonti ha raccolto, studiato e pubblicato. Un esempio di frastimu è il seguente:
Ancora m’agatto ancora
ancora m’agatto ancora
pro dare penas a tie
cioè
«Ancora mi trovo (in vita) ancora
Ancora mi trovo ancora
per dare pene a te»
L’Areddu ha avuto buon gioco nell’eliminare come insostenibili la interpretazione e le traduzioni di Giulio Paulis e di Nello Bruno, ma poi ha presentato una sua proposta di traduzione, che, a mio giudizio, è anch’essa insostenibile. Infatti in primo luogo egli ha forzato troppo la lettura della seconda sequenza grafica PAMAFAME dell’iscrizione, leggendola, in caratteri latini, come RAMAGA, con l’intento di interpretarla come m’agatto «mi trovo». In secondo luogo a lui in realtà è sfuggita una cosa molto importante: in un frastimu «improperio» unico ed unitario è assurdo che manchi il nome del destinatario, uomo o donna che sia.
Ebbene, a mio giudizio, il destinatario o meglio la destinataria del nostro frastimu è indicata nella sequenza MA FAME T. La quale appare come una sequenza criptata più delle altre, con l’intento del frastimadore di farsi capire dalla donna destinataria e da qualche altra persona e invece di restare lui e lei nascosti a tutti gli altri.
Probabilmente dunque l’autore della iscrizione semicriptata era un innamorato deluso, il quale era stato respinto oppure abbandonato o infine tradito, ed egli intendeva farla pagare cara alla donna superba o traditrice.
* * *
Alberto Areddu ha anche citato il dott. Giovanni Deriu di Semestene come colui che gli avrebbe fornito alcune indicazioni sull’autore della nostra iscrizione, innamorato deluso, ma il dott. Deriu – già mio allievo nell’Università di Sassari – si è lamentato di essere stato frainteso dall’Areddu e ha proceduto a darmi la sua seguente, testuale, precisazione:
«Ho visto per la prima volta l’epigrafe in oggetto, al mio rientro dal Belgio dove ero emigrato, durante la scampagnata di Pasquetta del 1971. Incuriosito, e allora del tutto a digiuno relativamente all’argomento, chiesi ai miei congiunti di Semestene di che cosa si trattava. Pietrina Bissiri, una delle mie zie materne (deceduta nel 2010), mi disse che tale “scrittura” era stata eseguita, per scherzo, da un bonorvese impiegato al comune di Semestene durante gli anni ’50… Dopo la sua pubblicazione dell’epigrafe in un sua opera del 1981 (“La lingua dei Sardi Nuragici e degli Etruschi”), andai in “loco” col prof. Marco Tangheroni (allora docente al Magistero di Sassari) e con Salvatore Chessa di Semestene, ora coautore di alcuni miei libri (anche lui è stato suo allievo nel corso di linguistica sarda), il quale affermò che, quando era ragazzo, si divertiva con i suoi compagni a cercare di ritoccare l’epigrafe e ad aggiungere qualcosa. Ecco ciò che ho dichiarato ad Alberto Areddu, circa due anni orsono. Aggiunsi che, secondo Nello Bruno, un mio collega al liceo Azuni di Sassari, la scritta andava letta nel seguente modo: “Ancora m’affanno et ancora po dare penas a tie” (basandomi sulla memoria, visto che il mio collega me ne aveva parlato nel 2006 e non avevo preso appunti). Escludo del tutto che il prof. Michele Sanna (zio del linguista Antonio Sanna) e l’ins. Salvatore Marruncheddu possano aver contribuito a siffatta “mistificazione”, diversamente da ciò che prospetta l’Areddu, seppure dubitativamente».
A questo punto io avevo affrontato il problema della sequenza MA FAME T con l’intento di tentarne almeno una interpretazione generica ed ero arrivato alla conclusione che erano possibili almeno cinque letture e altrettante interpretazioni verosimili.
Senonché qualche giorno dopo il dott. Giovanni Deriu mi ha mandato quest’altra importante precisazione, la quale ottiene l’effetto di risolvere del tutto il nostro rebus:
«Una persona anziana di Semestene, che non vuole essere nominata, mi ha riferito, di recente, che l’autore bonorvese dell’epigrafe, impiegato al comune di Semestene, sarebbe stato un innamorato non ricambiato di una certa Mafalda (classe 1932), mia cugina in secondo grado, ancora vivente, ma non più lucida (peraltro l’unica Mafalda di Semestene). Il significato della scritta sarebbe “ANCORA MAFA (E)T ANCORA PO DARE PENAS A TIE”. Le due lettere “NN” o “ME” dopo MAFA corrisponderebbero, quindi, alle aggiunte dei ragazzi di Semestene…».
Bravo il dott. Deriu per la esatta soluzione prospettata del nostro rebus e molte grazie per la sua piena disponibilità.
Però intendo fare due mie precisazioni alla sua interpretazione. Il nome personale di Mafalda, del tutto isolato a Semestene e probabilmente anche nei villaggi vicini, è da attribuirsi alle usanze “patriottiche” dell’Italia degli anni Trenta, quando a molti neonati venivano assegnati i nomi del re Vittorio Emanuele III, della regina Elena o dei principi di Casa Savoia, Umberto, Maria Pia, Gabriella, ecc. E infatti Mafalda era il nome personale della secondogenita del re, nata nel 1902 e morta nel 1944 nel campo di sterminio nazista di Buchenwald.
In secondo luogo la lettera T isolata potrebbe essere la iniziale del cognome Tanchis oppure Tolu, due famiglie benestanti tuttora esistenti a Semestene.
Featured image, fonte M. Pittau
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