La montagna, la città, la scrittura: un’intervista a Paolo Cognetti

Da Matteotelara

Paolo Cognetti, due raccolte di racconti “Manuale per ragazze di successo” (2004) e “Una cosa piccola che sta per esplodere” (2007) pubblicate entrambe con Minimum Fax; un romanzo, di cui parleremo in seguito, entrato quest’anno tra i finalisti del Premio Strega e candidato a libro dell’anno da Fahrenheit (“Sofia si veste sempre di nero”, 2012, Minimum Fax); “New York è una finestra senza tende”, guida letteraria alla città di New York pubblicata nel 2010 da Laterza; e infine un diario di montagna, “Il ragazzo selvatico“, uscito un mese fa con Terre di Mezzo. Vorrei partire proprio da qui, da quest’ultima pubblicazione, per poi risalire passo dopo passo fino ai tuoi inizi.

1) Qual è la tua relazione con la montagna? E come si lega al tuo rapporto con la scrittura?

È il luogo in cui passavo le estati da bambino, un paesaggio che conosco bene e che mi fa stare bene. O potrei dire: è il posto in cui mi sento libero. Mi piace la montagna meno battuta: preferisco i pastori agli alpinisti e gli animali agli uomini, e stare via per qualche giorno senza incontrare nessuno, dormire dove capita, pescare nei laghetti, rotolare giù per i nevai e passare in alto dove non c’è il sentiero. Poi scrivo. La mia scrittura è soprattutto un lavoro sul togliere, cercare la parola giusta, dire le cose nel modo più semplice e preciso, illuminare l’essenziale. Una scrittura che nasce dalla solitudine e dal silenzio, un po’ come la lingua dei montanari.

2) Quando parli di montagna e del tuo relazionarti alla natura, a me vengono sempre in mente due cose: la prima è il Jon Krakauer (e il Chris McCandless) di “Into the wild”, che tu stesso citi come una delle tue, chiamiamole così, fonti d’ispirazione. L’altro è il Kerouac dei “Vagabondi del Dharma” e di “Big Sur”, forse per l’immagine dello scrittore che deve isolarsi per ritrovare l’attenzione e la concentrazione necessarie allo scrivere. Quanto di tutto ciò hai messo ne “Il ragazzo selvatico”?

La storia di Chris McCandless mi è stata di grande ispirazione. Quando si parla di lui tutti sembrano colpiti più che altro dalla sua morte, a me invece ha colpito la sua vita. Uno studente modello, un bravo figlio e un ragazzo dal promettente avvenire che lascia tutto e passa due anni a vagabondare per l’America, e poi quattro mesi da solo nei boschi d’Alaska. Ho pensato che lo capivo bene, e che volevo fare qualcosa del genere anch’io. Chris ci era andato inseguendo Jack London e Tolstoj, questo per dire che a volte i libri cambiano la vita, se un lettore è disposto ad alzarsi dalla poltrona e farsela cambiare. Anch’io credo che non sarei andato in montagna se non avessi letto Krakauer, e Thoreau, e Mario Rigoni Stern. La scrittura è venuta dopo. Quando sono partito gli amici mi chiedevano: sei andato lassù a scrivere? Io rispondevo che per il momento ci ero andato a vivere, e questa cosa nessuno la capiva.

3) Dalla montagna, alla città. Dall’Italia all’America. NY in particolare: Brooklyn, che compare spesso nei tuoi scritti. Mi piacerebbe sapere in che maniera è nato questo amore, e se consideri queste due realtà, la metropoli e la montagna, opposte, complementari o simili.

È anche questo un amore nato dai libri. Ho letto tante di quelle storie newyorkesi che quando alla fine ci sono andato mi è sembrato di tornare a casa. Anche adesso a Brooklyn mi sento a casa, tanto quanto in montagna. Nella mia testa non sono realtà opposte ma due tipi diversi di solitudine. Immagino dipenda da come uno vive la città: a New York a me piace molto camminare e guardare, preferisco la mattina presto alla sera tardi e la periferia al centro, vado in cerca dei luoghi poco popolati, cerco di leggere la storia che raccontano. Un mio posto dell’anima è Red Hook, il porto dismesso di Brooklyn. Un altro è Coney Island d’inverno. Dove c’è molto oceano e molto cielo, e non è raro ritrovarsi da soli nel silenzio. Non ho intorno nevai e pietraie ma mi sento un po’ nello stesso modo.

4) Parlaci di Sofia. Una delle cose che mi hanno maggiormente colpito di lei è la maniera in cui, come tutti i personaggi ben riusciti, sembra aver assunto una sua vita, che travalica le pagine e diviene quasi presenza autonoma, respirante. Quando è nata Sofia? Come si è trasformata? E quanto ti ha trasformato?

È nata da un racconto scritto nel 2005, “Pelleossa”. Lì Sofia non c’era ma c’era una clinica di montagna per anoressiche, e un personaggio, Margot, che in un certo senso è la sorella maggiore di Sofia (per questo l’ho fatta tornare, volevo che loro due si incontrassero). All’inizio Sofia era questo: una ragazza scheletrica dal pessimo carattere, sfrontata e profondamente ribelle, tanto che a un certo punto si ribella anche contro l’obbligo di stare al mondo, e tenta il suicidio. Poi è diventata una bambina che gioca coi maschi. Poi una giovane donna che vuole fare l’attrice. L’ho scoperta un po’ alla volta anch’io. Non so dire se mi abbia trasformato, di certo mi ha fatto compagnia per tanto tempo.

5) “Sofia si veste sempre di nero” è piaciuto a tutti, critica e pubblico. Non succede spesso in Italia. Quanto hai impiegato a scrivere questa storia? E dove l’hai scritta?

Ci ho messo quasi cinque anni, tra Milano, la montagna e New York. Me la sono portata dietro dappertutto nei miei quaderni. In mezzo c’è stato un periodo di crisi, in cui mi sono bloccato per mesi senza capire come proseguire; e c’è stato anche un anno di grazia in cui la scrittura è sgorgata felicemente. Alcuni racconti che ho letto nel frattempo mi hanno aiutato molto. Te ne dico alcuni: “Train Dreams” di Denis Johnson è stato molto importante per la definizione di Roberto, “Gente del Wyoming” di Annie Proulx per il rapporto tra Marta e Rossana, “Ortiche” di Alice Munro per Sofia bambina. I miei percorsi di lettore guidano la mia scrittura, è sempre stato così.

6) Stai facendo uscire, soprattutto online (ho letto un brano sul tuo blog e un altro sulla rivista Tina di Matteo B. Bianchi) brani che non hanno trovato posto nell’editing finale del romanzo ma che comunque stupiscono per bellezza, profondità ed equilibrio narrativo. Sofia è presente in questi testi come nel romanzo. Molti lettori, addirittura, l’hanno conosciuta prima attraverso questi racconti e poi, successivamente, nel libro. Altri, dopo aver letto il romanzo, sono andati a cercare le parti che non vi sono rientrate. Io stesso aspetto ogni volta d’imbattermi in un nuovo brano. È come incontrare per strada un volto che si conosce. Continuerai a farli uscire? Che destino avranno?

Non saprei. Sofia è sempre viva nella mia testa ma, più che storie, ora mi vengono in mente frammenti di lei, un luogo in cui è stata, una persona che ha incontrato. Non penso a un nuovo libro, se è questo che intendi. Però mi piace che lei sfugga ai recinti tradizionali e vada a invadere altri territori, fa parte del suo carattere.

7) New York ha un ruolo importante nella tua vita. Ci hai girato una serie di documentari nel 2004, “Scrivere New York”, e ne hai anche pubblicato una guida letteraria con Laterza nel 2010. Al di là del fatto che ogni città, come ogni Paese, ha una propria personalità e un proprio respiro, sapresti indicarmi tre cose di NY che vorresti trovare anche nelle nostre città? (Ad esempio a Milano).

La gioia di vivere. È una città piena di umanità e di energia, e ti mette addosso una gran voglia di scrivere, viaggiare, fare progetti. La tolleranza verso tutti i tipi di diversità. L’accoglienza: dopo una settimana a New York sei un newyorkese anche tu. La bellezza.

8) Le tue due prime raccolte di racconti “Manuale per ragazze di successo” e “Una cosa piccola che sta per esplodere” sono stati casi letterari. In Italia, malgrado la grande tradizione delle novelle, dal secondo dopoguerra in poi le storie brevi hanno trovato sempre poco spazio. Da dove è nato il tuo amore per la narrativa breve? Credi che la tendenza, in Italia, andrà invertendosi?

Non è un caso italiano. L’eccezionalità sta semmai nello spazio che i racconti hanno trovato nella letteratura americana, e ci sono motivi ben precisi (l’importanza delle riviste letterarie, i corsi di scrittura universitari). Nel resto del mondo governa il romanzo e non solo gli editori, ma anche i lettori guardano con diffidenza alle raccolte di racconti. Io credo che siano due esperienze di lettura molto diverse. Leggere un romanzo significa immergersi in una storia, passarci del tempo, quasi viverci dentro, ed è una cosa bellissima quando ti succede; il racconto è più simile a una poesia, se è buono ti dà una piccola illuminazione, un breve momento di grazia. Io da lettore ho cercato per molto tempo questa esperienza. Allora ho amato Carver, Salinger, Hemingway, e poi Grace Paley, Flannery O’Connor, Alice Munro, ed è stato naturale mettermi a scrivere racconti. Ma credo che sarà sempre una forma minore, in termini di pubblico, proprio come la poesia.

9) L’ultima domanda ha a che vedere col principio: ovvero col momento da cui tutto inizia e un bambino prende in mano una penna e si mette a scrivere. È una cosa su cui tutti gli autori riflettono, anche se non tutti amano parlarne. Non voglio entrare nell’annosa (oltre che noiosa) questione di cosa faccia di uno scrittore uno scrittore: vorrei solo sapere quando il bambino Paolo ha preso la penna in mano per cominciare a scrivere le sue prime storie.

Non ero un bambino, avevo diciott’anni. È un mito un po’ ridicolo anche quello che uno scrittore sia uno scrittore fin dalla culla, come se scrivere fosse il suo destino. Io almeno non ci credo. Da bambino volevo fare il falegname, da ragazzo il matematico. Poi ho avuto un’adolescenza tumultuosa (da dentro; da fuori ero un bravo figlio e uno studente modello, tanto per tornare a “Into the Wild”), in cui le uniche risposte le ho trovate nei libri, e ho cominciato a leggere voracemente. Un giorno, in quinta liceo, mi è capitato in mano un bando per un concorso letterario tra studenti milanesi, c’era da scrivere un racconto di cinque cartelle a tema libero, e io non resisto alle gare, se mi sfidi gioco a qualunque cosa. Mi sono chiuso in camera e ho scritto una storia in cui io e il mio migliore amico scappavamo in macchina verso non si sa dove. Poi non ho più smesso.


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