Non conoscevo questo libro, ne ignoravo bellamente l’esistenza. Ma una delle fortune di essere considerato un appassionato patologico di “qualcosa” da amici, parenti, conoscenti e persone che non saluti nemmeno per strada, ti trasforma in una calamita per tutto quanto riguarda quel qualcosa, nel bene e nel male. Moltissime sono delle scemenze orrende. Alcune invece sono delle vere perle che probabilmente non avremmo mai trovato. Come questa.
(Liberamente tratto da “La morte dei caprioli belli” di Ota Pavel edito da Keller nel 2013)
Dopo la guerra ce ne venimmo a Luh. Lo zio Prošek ci diede il benvenuto e disse: «Vi dico una cosa. Qui è pieno di lucci, I lucci non salgono più in superficie come prima, e così i pescatori non ne sanno nulla». E così io e il mio papà ce ne andammo in barca sull’isola per pescare i lucci. Prendere i lucci con la trottola, cioè con un galleggiante che è grosso quasi quanto un uovo, è relativamente facile, ma eccitante. Magari aspetti per ore intere che quel grosso galleggiante si inabissi, e quando finalmente affonda cominci a tremare oppure a sudare. È probabile infatti che ad abboccare non sia stato una mezza tacca, come viene chiamato un pesce piccolo, ma un pesce che va da uno a quindici chili. Noi quella volta, subito il primo giorno, ci portammo a casa otto lucci. La notizia si sparse in giro, come quando trovi nel bosco dei porcini o dei mirtilli. Un sacco di pescatori si misero in moto. Ma a quel tempo la Berounka, da Skryje a Branov, era il paradiso dei lucci. Durante le vacanze papà ne prese più di cento, io sessantaquattro. Alcuni erano rispettabili, quella volta non c’era ancora granché da fumare e da mangiare, dovevano essere rispettabili se il macellalo di Křivoklàt per un luccio mi aveva dato quasi due chili di strutto con i ciccioli e per un altro il tabaccaio di Křivoklàt mi aveva dato un centinaio di sigarette per la mamma, che fumava come un turco. Già, e poi eravamo riusciti a salvare il fiume dai lucci predatori; a volerla dire tutta, lo avevamo in realtà saccheggiato. Nel fiume erano rimasti solo i lucci grossi e furbi e quei giovani lucci minuscoli, i piccoli di luccio, che nessuno prendeva se proprio non era un mascalzone.
E in quel periodo, un giorno imprecisato, si arrivò a una tacita gara tra i Vlk, i Lupi, che vivevano a Luh, e la nostra famigliola, che era composta principalmente dal papà e da me. Lo zio Prošek quella volta non poté venire con noi, stava un po’ male. Dei Vlk, quelli che pescavano erano soprattutto Adolf e Franta, tutti e due lavoravano nelle ferrovie. Adolf lavorava al deposito. Franta andava col treno a Smíchov all’ufficio ragioneria. Da trentatré anni, estate e inverno, si faceva dieci chilometri a piedi fino al treno! Era qualcosa di fantastico. Spesso trovava gelo, cumuli di neve, acquazzoni. Era una grandissima prestazione sportiva, che lui compiva da decine di anni. Attraversava infatti una zona dove c’erano boschi, burroni, salite, stretti sentieri. Avevo sempre pensato che i Vlk non ci volessero bene, ma anni dopo si dimostrò, soprattutto quando smettemmo di pescare da loro, che ci volevano bene, solo gli faceva rabbia che noi, dei praghesi, cacciassimo il naso in casa loro, anzi nel loro fiume. Prima che me ne dimentichi, Adolf lì a Luh aveva, e ha ancora, una bella moglie di nome Marie che a me, ragazzetto di sedici anni, piaceva molto. Nella parte di sopra aveva tutto come si deve e la cosa non guastava. E con questi Lupi ci mettemmo in competizione, penso che quella volta non fosse ancora una competizione socialista, i comunisti per il momento non erano al potere. Sapevamo che i Vlk erano dei pescatori fantastici. Conoscevano quel fiume fìn dall’infanzia, sapevano dove era più o meno profondo, erano perfino in grado di supporre dove e quale luccio dimenticato se ne stava rintanato in agguato aspettando la preda, andavano a pesca così di frequente che sapevano quale luccio era già stato preso all’amo e ributtato in acqua. Pescavano spostandosi lungo la riva e ci sapevano fare, stuzzicavano anche i lucci più satolli. Ma tutto questo non importava. al mio papà, che non perdeva occasione per dichiarare presuntuosamente che gli avremmo fatto il culo. E così uscimmo che era ancora buio, arrivammo quasi navigando fino al prato di Brtva, dove c’erano i tratti più belli di acque tranquille e di pozze popolate di lucci, ma dove allora era difficile pescare, era tutto pieno di erba e di ortiche belle alte. (Quello forse non era neanche più pescare, era piuttosto sgobbare. Il pomeriggio papà disse:
«Smettiamo» e aggiunse: «Oggi gliela abbiamo fatta vedere ai Lupacchiotti».
Non ne ero del tutto sicuro. Avevamo tre lucci, di uno solo si poteva dire che era abbastanza grosso, gli altri due non erano né grandi né piccoli, una via di mezzo. Riscendemmo il fiume in barca fino al traghetto e tutti e due pensavamo a che cosa avevano pescato Adolf e Franta. Quando attraccammo sotto l’acacia, papà mi disse in tono deciso:
«Vai a farti prestare il carretto!»
Ero rimasto sconcertato e non capivo:
«Perché il carretto, papà?»
Al mio papà non ci si poteva opporre granché.
«Vai a prendere il carretto, ti dico! I nostri lucci oggi li portiamo col carretto» disse in tono deciso e poi aggiunse, ma già a mezzavoce, come se lui stesso non ci credesse del tutto: «Sono pesanti».
Andai quindi a prendere il carretto. Era un carretto con le fiancate a rastrelliera, piccolino, ma era comunque così grande che i lucci che ci stavano dentro quasi non si vedevano. Giusto il più grosso, quello papà l’aveva spinto un pochino indietro, perché gli spuntasse di fuori la coda. Non so da dove mi veniva tanta fermezza, ma dichiarai risolutamente: «Io quel carretto non lo porto. Perlomeno non attraverso Luh!» A dire il vero l’avevo quasi gridato e mi era venuto in mente che la signora Marie sarebbe stata sulla porta a guardare. Papà mi guardò, pensava a qualcosa, forse si chiedeva se doveva prendermi a schiaffi o se doveva invece togliere quei lucci dal carretto. Vedevo i suoi occhi profondi vagare per i pendii intorno e chiedersi, come la maggior parte dei padri e soprattutto di quelli ebrei, quanto la vita lo castrasse mandandogli una moglie come la sua e quanto con i figli. Poi andò verso il carretto, diede a me le canne e il carretto lo tirò lui.
Il carretto ondeggiava e sobbalzava sulla stradina piena di sassi che passava tra le casette di Luh. Mai quella strada mi era sembrata tanto corta. Volavamo proprio, con quel carretto, anche se io mi auguravo che per arrivare a la casetta di Adolf Vlk ci volesse un’eternità, o se no, almeno tutta la vita. Eppure dovevamo andare terribilmente piano perché al mio papà, quando vide in lontananza quei fantastici pescatori che erano Adolf e Franta, pur con tutto il suo coraggio gli si piegavano probabilmente le ginocchia. Arrivammo davanti alla loro bella casetta. Avevo occhi solo per Marie che, con un corpetto bianco inamidato stava davvero sulla soglia e teneva le braccia incrociate sul petto. Sul volto aveva un espressione sprezzante e questo mi diede una scossa. Ritornai in me e lo sguardo mi si posò sulla stanga dove si battono i panni. Appesi con del fìl di ferro cerano cinque lucci. Cinque
grossi lucci. Tre erano della razza dei bei lucci reali, lunghi e verdi, e i due giallini erano grassi come se il vodnik della roccia degli Šíma li avesse messi all’ingrasso apposta per i Vlk.
Il papà in quel momento inciampò, per poco non cadde, e si fermò, sentivo che ansimava profondamente. Non so quanto restammo fermi lì. Silenzio, profondo silenzio, non c’era proprio niente da dire. Poi si girò verso di me e disse con voce roca:
«Aiutami, è pesante».
Mi fece pena, di sicuro adesso il carretto era per lui smisuratamente pesante. Non obiettai nulla, dimenticai la signora Marie, misi le canne sul carretto e cominciai a tirare il carretto su per la salita che usciva da Luh. Facciamo parte della stessa famiglia, pensai, e dobbiamo andare avanti insieme. Camminavamo a testa bassa e sapevamo bene che quel giorno i Lupi senza dire neanche una parola ci avevano fatto, per dirla alla maniera di papa, il culo.