E’ morto Marco Simoncelli, uno dei migliori gladiatori della moto, durante una di quelle gare che nelle buone intenzioni dovrebbero fare di tutto per allontanare lo spettro dell’incidente e anche della morte, ma che in fondo vivono di quest’alea sempre in agguato. Sono costruite per l’abilità, ma anche per il rischio e per il coraggio di affrontarlo. Una cosa abbastanza ovvia, ma che spesso non si ha il coraggio di dire apertamente, nascondendosi dietro mille scuse.
Non seguo il motociclismo, ma naturalmente sono rimasto colpito dalla notizia, come sempre accade quando la realtà della morte si fa strada attraverso tutte le difese e gli esorcismi, quella specie di apollineo impastato nella bellezza estetica della gara, ma anche nelle bugie che ci diciamo. Però mi ha anche colpito la velocità con cui la notizia si è diffusa sui social network, portata di voce di voce, con stupore e dolore anche da amici che a malapena conoscono l’esistenza delle moto. E dubito molto che sappiano di Simoncelli o di qualcun altro che non sia Valentino Rossi.
Ma è la forza di trascinamento dei media e delle persone in qualche modo famose, anche se ne conosciamo solo per caso il nome, che turba la nostra levigata esistenza nella quale il rischio appartiene sempre ad altri e mai a noi. L’incidente, la fatalità la morte sembrano per un attimo essere più vicini se tocca qualcosa che fa parte dell’immaginario in cui ci imbattiamo e che permea la nostra vita.
Ma quando cade qualcuno da un’impalcatura o muore in una cisterna, se proprio non è una strage, se non sono “grandi numeri” è quasi come se ci scivolasse addosso. Eppure non dovrebbe accadere, non dovrebbe succedere ancor meno che nelle gare di qualunque tipo esse siano. Eppure quelle tragedie che passano nelle brevi di cronaca ci riguardano assai più da vicino perché coinvolgono le dinamiche sociali nelle quali noi stessi siamo coinvolti. La disattenzione, la furbizia, la protervia che spesso sperimentiamo sulla nostra pelle anche se in maniera non così drammatica.
Forse la nostra inquietudine e la nostra angoscia si scarica attraverso le vie più facili e paradossalmente il dramma di tutti non è quello dei rapporti alterati e del potere che viviamo direttamente, ma quella astratta del personaggio che tutti conoscono o ci si immagina conoscano. Così la tragedia di uno diventa una catarsi dalla quale siamo spesso distratti.
Per quasi 40 anni ho vissuto in quel mondo dove i motori sono mito e lavoro, quell’universo che si affolla lungo la via Emilia da Maranello alla pista di Santa Monica e quindi forse sono ancora più colpito di altri: perché quel tipo umano che ti fa il pelo sulle curve dell’Appennino lo conosco bene. E tuttavia mi hanno sempre interessato di più le scuole che hanno permesso a certe sapienze meccaniche di svilupparsi, alle lotte che durante un secolo non hanno affatto messo in forse la nascita di molte leggende, ma le hanno invece create non permettendo a nessuno di sedere sugli allori o di accontentarsi della mediocrità. O di tentare sfruttamenti eccessivi.
Ecco cosa mi fa venire in mente la morte di un gladiatore della moto, quel destino che ha fatto pollice verso. Tutto il lavoro e le conquiste che lo hanno portato ad avere un titolo in prima pagina, a far piegare Facebook sotto il peso dei messaggi dei messaggi di cordoglio. E forse anche quella civiltà di cui ormai non abbiamo che riflessi televisivi, il patos della tragedia che ottenebra quello sociale.